“I racconti di Vittorio Nicoli”

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Le insegne

Felicior Augusto melior Traiano

Sono ormai anni che è diventato imperatore, da quando il saggio Nerva lo ha adottato, costretto dalla casta militare ormai politicamente importantissima nel governo di Roma, e lui lo ha poi sostituito alla sua morte. Da uomo di armi ha dovuto occuparsi in prima persona della sicurezza dei confini dell’impero, ottenendo peraltro importanti successi sul campo contro Decebalo, re della Dacia, e ha fatto erigere ad imperitura memoria una colonna marmorea, che ricordi l’epopea dell’impresa.

Dovrebbe essere orgoglioso, felice e grato agli dei che gli hanno fatto dono di coraggio e saggezza, fortuna ed astuzia. Ma non gli basta: è inquieto oggi, il giorno dopo il trionfo che gli è stato tributato, rinchiuso nel suo palazzo come una belva in gabbia. Qualcosa lo tormenta da anni, da ragazzo nella natia Spagna come in Germania giovane governatore, mentre si prodigava per raggiungere la soglia nella scala sociale che riteneva gli spettasse di diritto. Gli è riuscito tutto, anzi è arrivato oltre al gradino massimo, appena sotto gli dei eppure…

Uno schiavo lo avvicina, è Licinius, il vecchio servitore della sua famiglia, l’uomo fidato che lo ha accompagnato sin da ragazzo, colui che conosce l’animo del padrone con il solo sguardo.

“Cosa avete Marcus Ulpius? Vedo ombre nei vostri occhi eppure ieri Roma ed il mondo intero vi hanno reso tributo”,  il vecchio conosce già il tormento e vorrebbe estirparlo dal cuore dell’amato padrone, che ha visto bimbo nella Spagna felice, ma non conosce il rimedio contro il veleno che egli chissà come e quando ha ingerito.

“Lo sai Licinius, è sempre lo stesso: anche stanotte ho sognato le insegne…”

“Sono passati 150 anni, Marcus, e le insegne sono tornate a Roma con il divino Augusto, è un fatto acclarato”

“Per nulla, Licinius, per nulla. Ne hanno restituito solo alcune: quei morti non riavranno mai pace, Roma non riavrà mai il suo onore sino a che tutte non saranno qui nella loro casa e io sento il dovere di andare a riprenderle, ogni giorno in modo più pressante.”

Il pover’uomo non sa come convincere e fermare il padrone, oggi l’uomo più potente al mondo, giudice unico di vita e morte, arbitro del fato di tutti, ma non del suo. E gli ritorna alla memoria il tempo lontano quando, accompagnando il ragazzo in una visita alla città di Cadice, questi aveva voluto conferire con una maga numida la cui fama aveva varcato i confini della stessa Spagna. L’aveva vissuta come uno scherzo, quando l’età giovane fa pensare ad un futuro senza tempo, e aveva riso alla profezia che quella, invero serissima, gli aveva svelato.

“Imperator sarà il tuo titolo, vedrai la terra fra i due fiumi sino al loro sbocco, riavrai gli agognati vessilli in cambio della tua stessa vita.”

“Della vita”,  pensa lo schiavo,  e sa che nulla v’è di più prezioso, sa che il suo amato padrone inseguirà quel folle destino, e non sa come proteggerlo: il giuramento fatto al padre di Marcus il giorno della nascita verrà tradito. Continua a chiedersi perché questo sogno delle insegne ossessioni Marcus sin da bambino. Lo ricorda quando adolescente la notte si rigirava nel giaciglio e pronunciava frasi sconnesse alternate al suo nome, Licinius!

Povero vecchio non sa che non era lui chiamato nel sogno, ma l’uomo che aveva, a causa della sua ingordigia, perso un intero esercito in terra partica: Marco Licinio Crasso; e che il caldo, la sete e la sabbia che tormentavano il povero ragazzo nel sonno erano quelle di Carre.   In quella nefasta battaglia gli dei avevano volto le spalle ai romani, rei di aver cercato solo oro e bottino, incuranti della forza e della furbizia del nemico. Là vennero perse le insegne in una vergognosa fuga, cadendo nel tranello di vili consiglieri voltagabbana, troppo sicuri dei propri mezzi e tronfi del proprio coraggio abbandonata la giusta sapienza.

Babilonia: finalmente una notte serena, il divo Traiano gode la pace dell’anima, il re dei Parti sconfitto ha riconsegnato i vessilli che tanto lo hanno tormentato. Il buon Licinio è morto alcuni anni orsono proprio alla vigilia della campagna militare, nessuno veglia più il ragazzo.

Nel buio della notte e nel silenzio della grande sala che vide i re Babilonesi ed Assiri, una figura ieratica avanza verso il giaciglio dell’imperatore e più volte lo chiama per nome. Traiano si sveglia e rivolge lo sguardo sorpreso ma non spaventato verso la voce: “Chi sei? Come conosci il mio nome?”  Ha eluso la guardia e questo basta per fargli impugnare il gladio.

“Non temere Marcus! Finalmente posso vederti. Ti ho chiamato da quando eri un bambino, sapevo che saresti venuto, che le insegne ti avrebbero mosso. So che solo tu potrai portare a termine il mio sogno, varcare i confini persiani verso il misterioso Oriente.”

Traiano comprende che la figura augusta che lo fronteggia altri non è che il grande Alessandro, l’invitto generale macedone. Un brivido gli sale dal cuore al capo: la sua grande sofferenza era dunque intrecciata al suo destino e al contempo a quello del suo unico predecessore, l’unico abile a sciogliere il nodo di Gordio, che gli aveva aperto la conquista del mondo.

“Veramente posso ambire al sogno alessandrino? Non sono forse troppo vecchio per tutto questo?”  Mentre si domanda queste cose, la bionda figura si dissolve nel nulla, lasciando all’imperatore un gusto acre in bocca, mentre la sua mente inizia a pianificare la nuova missione.

“Babilonia strega chiunque!“ aveva detto Licinius in punto di morte…

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IL GENERALE

Era notte fonda quando uno dei soldati di guardia entrò trafelato nella sua tenda: “Generale! Generale! Tremenda sciagura, venite voi stesso a vedere!”

L’uomo era sconvolto, malgrado cercasse di mantenere ancora un atteggiamento marziale.

Il generale lo squadrò sorpreso e quasi incline ad una reazione di rabbia per un contegno venuto meno, poi decise di capire cosa fosse accaduto, cosa avesse turbato così tanto il suo soldato.

Uscì dalla tenda con gesto imperioso e subito fu avvicinato dai suoi subalterni: i loro volti lunghi e terrei tradivano la calma dei gesti, avevano paura. Proprio loro, vincitori di tante battaglie in terra straniera, capaci dell’impossibile, audaci sino alla follia, ora innanzi a lui bambini piagnucolanti.

Fu allora che vide la testa ed ebbe un moto dallo stomaco, dal cuore, dal cervello: suo fratello… proprio la testa di suo fratello … maledetti romani, come uno scorpione lo avevano colpito in modo inatteso nel cuore, la rabbia montava da basso e faceva fremere le membra, il cervello già valutava le conseguenze di quella sconfitta.

Erano ormai dieci anni che combatteva sul suolo straniero, passando di vittoria in vittoria, seminando il terrore nelle popolazioni italiche, un nemico di nome Roma, la città che ambiva a dominare il mondo. Proprio no, non avrebbero avuto nulla ai loro piedi quei presuntuosi, malgrado la loro organizzazione, la loro forza, le loro leggi, sarebbero caduti per la loro boria. Aveva sterminato un esercito enorme a Canne, senza alcuna pietà i suoi soldati avevano finito uno ad uno i legionari appartenenti ai ceti più in vista, alle famiglie più potenti. Ed avevano pianto, eccome se avevano pianto, con i loro cuori spezzati e spauriti, proprio come lui adesso per Asdrubale, e anche loro non avevano avuto pietà del vinto, gli avevano mozzato la testa per offrirgli un macabro regalo.

“Padre! Quando ci hai insegnato l’odio verso Roma, verso la tirannide di chi ti vuol schiacciare perché sei sul suo cammino, sapevi che Asdrubale era il più debole e infatti lo hai forgiato con più tenacia, conoscevi le nostre qualità, solo un uomo poteva essere così folle e così forte da passare le Alpi, eppure hai fatto sì che questo amato fratello riuscisse dopo di me!” – urlava nella sua tenda il generale, a tal punto che il suo braccio destro si risolse ad entrare per capire.

Normalmente nessuno avrebbe osato disturbarlo, ma era necessario, i romani non avrebbero ceduto, anzi ora erano più sicuri dei loro mezzi. “Generale, le truppe ascoltano il vostro dolore, perdonatemi ma consiglio prudenza; sono ormai anni, tanti anni, che siamo in Italia, basta un nulla, uno scoramento e saremo battuti e chiusi in una trappola mortale. Capisco lo strazio del vostro cuore, e credetemi è anche il mio, ben conoscete la mia lunga militanza con i Barca”.

“Tranquillo Annone, “- rispose – “la mia mente è pronta ed il braccio sicuro, ben sai che i romani non hanno generali che possano competere con me. E questo lo sanno anche gli uomini che là fuori si interrogano”

Annone lo abbracciò con forza, a lui questo era consentito, e lo fece con l’orgoglio di essere al servizio di quella straordinaria famiglia, dalla Spagna alla campagna d’Italia, da Amilcare ad Annibale; poi uscì rapido a confortare le truppe.

Rimasto solo, o forse solo lo era sempre stato, Annibale raggiunse il braciere che ardeva nella sua tenda e si mise a fissare i giochi di luci ed ombre del fuoco. In mezzo vide il padre, quando chiese a loro fanciulli il supremo giuramento di combattere Roma sino alla morte: poco più che bambini, con gli occhi e le mani rivolte verso l’alto scandivano la formula dell’odio eterno e chiedevano il sostegno degli dei. Ma si può odiare in eterno? E quanto costa? Lo sguardo andò all’immagine della testa mozzata del fratello: padre quanto abbiamo pagato! Ed io non ho potuto far nulla, non potevo sorreggere chi era venuto per sollevarmi.

E l’astio aumentava, il livore consumava, e le faville rimandavano una dopo l’altra le immagini delle battaglie vinte, dei gladi lucenti, degli scudi spezzati, degli elmi fessi, della polvere dei cavalli … infine il suo esercito innanzi a Roma, quanto lo aveva sognato e lì giunto non seppe che fare… veramente aveva perso la grande occasione? Tradito l’alto giuramento prestato? No, quello mai, ne era sicuro, tuttavia da tempo il dubbio lo attanagliava: aveva esitato? Fratello mio, non avessi ricusato l’assedio, tu saresti ancora qui al mio fianco, forse la città sarebbe caduta.

E allora perché tornai indietro? Non volevo finisse, volevo continuare ad infliggere dolore al nemico ed ai suoi alleati, certo di essere invincibile: nessuno sapeva e sa manovrare le truppe in campo aperto come me… e allora soffrite o romani sino ad impazzire, privi dei vostri figli, con le città annerite dal mio fuoco, le campagne devastate, alla fame perché io ho il vostro grano.

Ma in fondo al cuore un’ombra tremenda ed accusatrice gli parlava: “Non hai preso Roma perché questo avrebbe significato obiettivo raggiunto, e allora la vita cosa sarebbe divenuta? Cosa avresti fatto dopo, grande generale? Avresti condotto la vita del notabile cartaginese che si occupa dei suoi affari e dei suoi commerci? Tu? L’eletto a grandi imprese? Avresti vissuto una vita vuota, senza più quella corroborante sensazione di rabbia, di forza, di violenza? No, Roma doveva vivere perché anche tu potessi continuare in una guerra eterna, sino alla fine dei tempi. Insomma, non c’è redenzione, generale, bisogna odiare sempre. Ricorda, non si sceglie chi amare ma chi odiare, ami chi puoi, ma chi odiare te lo scegli eccome. Lo culli da bambino questo senso gratificante, ti infervora tutto sino a farti tremare le mani, passare notti insonni immaginando Roma in fiamme, ma ha un prezzo e non puoi sfuggirgli. No, non è la vita, a quella semmai dà un senso che sarebbe ben arduo trovare, no, sono gli affetti, gli amici squartati, i fratelli decapitati, le voci strazianti dei morituri. E mentre ti spaccano il cuore alimentano quella grande forza che ha l’odio. Vai generale, i romani ti aspettano, uccidili piano piano.”

Il fuoco lentamente si stava spegnendo ed il dolce calore lasciava posto al freddo della notte, al buio del vuoto, ai denti ghiacciati del male e del rimorso, che dilaniavano tutto attorno a lui.

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Dopo la conclusione della piece teatrale “Una vita davanti”, ospitiamo ora per alcune settimane con grande piacere alcuni racconti brevi del caro amico Vittorio Nicoli, i quali saranno un interessante intermezzo, basato sulla rielaborazione della storia di alcuni importanti personaggi storici, prima della pubblicazione dei miei nuovi racconti a carattere distopico. Buona lettura!

 

INTRODUZIONE

Con   l’Angelo della morte inizia una serie di racconti incentrati su personaggi storici che vedono la loro vita mossa o condizionata da una passione forte, da un sentimento, o da un ideale che ne ha delineato il corso. Il protagonista del primo racconto è quello meno “storicizzato”, ma ha una sua dimensione biblica che le arti figurative hanno a volte riprodotto. L’obiettivo è quello, spero non pretenzioso, di romanzare quelli che io definisco i demoni che muovono le vite di ogni comune mortale e che con i personaggi storici raggiungono le loro iperboli.

L’ANGELO DELLA MORTE

Oggi le ali pesano in modo insopportabile: queste appendici, che mi permettono di volare etereo, sembrano rivestite di un sottile strato di piombo lucido e mi inchiodano qui, appollaiato su questo scoglio dinanzi a questo mare plumbeo più del cielo. Eppure, fra tutti gli esseri del creato, dovrei essere quello più lieve, anzi solo una emissione di luce che si configura ad immagine umana per non spaventare proprio gli stessi uomini. Certo una luce che appare all’improvviso dal nulla, impossibile ad esser fissata o fermata, che comunica con lo stesso linguaggio, ma in forza enormemente più potente, spaurirebbe le piccole creature di Dio.

Allora ecco l’immagine dell’uomo-angelo, con queste ali imponenti, un misto fra uccello e uomo, bellissimo ed intangibile. Chi non desidererebbe essere un angelo? Oggi io. Sì, non resisto più in questa veste celestiale e demoniaca. Già perché non vi ho ancora detto chi sono: sono l’angelo della morte.

Avete compreso bene: eseguo la somma giustizia di Dio. Solo da Lui prendo ordini, non appartengo all’esercito celeste, gli arcangeli su me non hanno alcun potere. Penserete possa essere un grande privilegio il mio, rapporto unico con il Creatore, esecutore delle sentenze, nessuno mi può appellare. Ma guardate oltre alla mia veste magnifica, rossa come il sangue, ai boccoli dorati che rifulgono nel cielo nero, alla mia spada affilata che scintilla della mia stessa luce: oltre c’è la solitudine dell’unico, di un compito che nessuno realmente vorrebbe.

Il mio ruolo è eterno nel presente di Dio, il Suo disegno mi vuole ora e sempre al Suo servizio, l’angelo che nessuno vuol vedere. Pare impossibile vero? Tutti amano gli angeli, in specie quelli custodi, sempre hanno trovato rappresentazione nelle arti degli uomini questi esseri celestiali, bellissimi, inarrivabili. Ma per me tutto questo non conta: si può amare un angelo che porta la vendetta e la morte? Notate bene: io e la morte svolgiamo compiti diversi e distinti, e vi debbo svelare che mai ci incontriamo, non siamo mai nello stesso posto. L’arcigna figura con la falce non può stare al cospetto di un angelo di Dio malgrado l’esito dell’operato sia lo stesso: poniamo termine ad una o più vite, ma lei svolge il lavoro ordinario, quello che la sua natura le impone, il ciclo della vita che in qualche modo vede il suo termine; io porto la vendetta tremenda di Dio, quella che non ammette redenzione, la mia vista significa dannazione eterna.

LUCIFERO

Il primo ad avermi visto agli albori di tutto fu proprio uno come me, ma il più bello di tutti ed anche il più potente: colui che volle essere come Dio. Un folle che finì per essere dannato, trasformato nell’essere più abominevole mai esistito, perché la nostra bellezza è rispecchiarci in Dio, lontano da Lui diventiamo mostri. Mi vide – dicevo – per primo con la mia spada scintillante, adornato dalla mia veste scarlatta; ricordo bene il suo sguardo con la mia immagine riflessa, stupore e terrore, ma conscio che ogni fuga era ormai impossibile, la sentenza emessa dal Sommo tribunale inappellabile. Cadde, o meglio precipitò sulla terra con un enorme boato, disintegrandosi in piccole frazioni di male che presero a circolare ed ammorbare il creato, mai però avrebbero potuto in futuro minacciare veramente l’esistenza.

Capii allora quale fosse la mia sorte: il tratto che manca fra il bene ed il male, il grigio di chi vede il mondo sempre diviso in due. Tocca a me fronteggiare il terrore di chi mi incontra perché io lo respiro, lo assorbo, sento il dolore dei loro cuori, il fremere delle loro membra, la paralisi dei volti. Persino un essere superbo come Lucifero, capace di scatenare le tenebre della sua corda, ha mostrato sgomento: sapeva d’essere inerme innanzi alla giustizia che sconvolge la materia e ne cambia le leggi ed i moti. Le sue ali, simili a vele nere di navi colte da tempesta, e per questo motivo lise e rabberciate, si piegarono e riaprirono come frustate dalla furia dei miei gesti, dalla sua bocca uscirono parole di fuoco che si spensero all’istante, i suoi artigli ricurvi e velenosi si frantumarono sulla mia veste. Noli me tangere, – il detto dei latini aggrada alla verità del mio essere – non mi si può arrecare danno alcuno.

Come è Lucifero? Mi chiederete. Ebbene, per lui esiste un prima ed un dopo, direi come per tutti i mortali che ho avuto occasione di incontrare; prima del male bellissimo da impazzire, il pensiero quasi perfetto, la luce che porta la letizia fra le legioni di Dio. Dopo, solo il buio ed il freddo, la tristezza di un’esistenza senza scopo, ossia un non essere tormentato e dilaniato dall’odio verso tutto. Questo è il ritratto del primo nemico di Dio: nella storia è diventato ingannatore, violentatore, assassino, insomma un mostro assoluto, ma il suo sguardo per una volta, una sola, è stato sincero ed ha riservato a me questo trattamento. Mentre la mia spada infuocata lo percuoteva ho potuto vedere me stesso nei suoi occhi: tutta la mia eterna solitudine mi ha accolto, e il suo sguardo mi ha rivelato la pietà che per un infinitesimo di secondo ha provato verso il suo carnefice.

Eccomi su questo scoglio a guardare questo mare plumbeo attendendo il prossimo compito per poter ancora vedere il mio aspetto atroce e maestoso e chiedermi perché proprio io: Ti prego dammi una diversa soluzione, fammi rientrare nelle Tue schiere, non lasciarmi ancora errare come un povero derelitto.

DIALOGO CON LA MORTE

Mi è accaduto talvolta di dialogare con la morte per cercare di capire cosa provi lei nello svolgere il suo compito. Debbo purtroppo riconoscere che la morte non lavora da sola; i poveri esseri mortali non sanno che esistono molteplici morti e sempre molto affaccendate con tutto quello che di caduco appartiene a questo ed altri mondi: la loro non è una condizione eguale alla mia, la mia unicità ed irripetibilità loro non la condividono, anzi. Oserei quasi dire che il loro impegno è dozzinale ed in parte ripetitivo, non fosse drammatico per tutti quei piccoli esseri viventi. Gli uomini, che sono meno stupidi di quanto loro stessi pensino, avevano inventato tre figure femminili che tessevano le loro vite, proprio come fosse un onesto lavoro: sapessero di aver avuto ragione chissà come reagirebbero, come li farebbe sentire questa sistematicità della morte!

Ma torniamo al rapporto con la signora con la falce, romantica immagine umana per rendere concreta la non esistenza: non ha mai avuto modo di fare chiarezza su quello che prova nell’adempiere al suo compito, sembra non sentire alcun peso per le sue azioni.

“Stai tranquillo – mi disse – svolgi il tuo compito senza tormentarti, in fondo sei un essere fortunato e superiore, tu dialoghi con Dio! E vuoi da me, neanche mai interpellata, che ti offra chiarimenti ed appoggio, sei quasi meschino nei miei confronti.”

“Meschino? Io voglio solo capire cosa provi quando tormenti un essere umano, quando piano piano gli togli l’effluvio della vita, spegni la luce dei suoi occhi per il buio eterno…”

“Nulla, non provo nulla – affermò – agisco e basta, perché è giunta la mia ora e la sua. Deve fare posto, andare, portar via il suo bagaglio di gioie e dolori perché qualcun altro possa adire lo stesso percorso sino all’eternità. “

“Ma i loro sguardi – proseguii – qualcosa ti diranno, avrai un momento in cui li osservi, un minimo di curiosità per le loro reazioni …non posso credere che tu agisca senza un piccolo esame delle condizioni, del soggetto, di quanto accade.”

Non potevo confessarle che con me Dio non parla. Con me non parla proprio nessuno in modo spontaneo. E lo credo bene! Faccio paura! Dal mio scranno sulla scogliera vedo l’immagine del luogo o della persona, tutta la sua storia mi appartiene e so come e perché debbo agire.  Da solo.

L’INCONTRO CON IL POETA

Erano i suoi ultimi giorni a Napoli; la città era scossa dall’epidemia, una delle tante che periodicamente la mia amica morte provocava per far spazio fra i mortali. Lui era febbricitante nel letto, un corpo contorto che tanto aveva lottato per esistere a fronte di una mente che lo aveva totalmente soggiogato. Mi aspettava. Ossia non poteva sapere della mia esistenza, ma il suo fine acume lo sospettava da sempre e vidi dai suoi occhi che non aveva alcuna paura.

“Sarà la fine della mia sofferenza la tua venuta o angelo! Giustamente la vendetta di Dio mi colpisce e allo stesso tempo mi nobilita: non la comune morte ma la tua spada saranno artefici del mio trapasso! Tanto nella mia vita ho cercato il senso ultimo di quello che mi circondava ed ora tu, erto davanti al mio capezzale, mi offri la soluzione. Quale sia la mia colpa non me ne avvedo, ma ora tu chiarirai…”

“Sei un grande poeta cui oggi nessuno riconosce meriti, ma io so che li avrai. Il mio compito, di cui ben ti sei avveduto, è punirti per quello che potevi e non hai fatto: ti sei ribellato alla natura che di Dio è espressione, hai invocato l’inutilità della vita dinanzi al destino avverso, hai sotterrato i talenti invece di investirli”.

“Allora, dimmi tu, essere etereo, in cosa mi sono ingannato: forse sulla caducità della vita o sulla totale indifferenza alle umane sorti? Lassù sta lo sterminator Vesuvio, per conto di chi agisce e distrugge quello che tanta fatica ha costruito? Hai dunque un almanacco da distribuire per il nuovo anno pieno di felicità? Quale dunque il tuo responso?”

“Spiacente caro poeta, la punizione è per la tua arroganza, per la supponenza della tua mente: agli albori ho veduto altri pensare d’essere capaci di capire il pensiero che sottende al creato. Poveri illusi! Dio li ha puniti.”

“Viene da pensare che Dio sia un poco suscettibile verso noi poveri mortali, certo se il primo a patire pena fu Lucifero – come io credo – siamo su un livello superiore, nulla di umano.”

In quel momento i suoi occhi ebbero una luce strana, un misto di tenerezza e tristezza, rivolti verso me: mi compativa o meglio aveva inteso la mia sofferenza e sopra ogni cosa la mia solitudine. Poteva un semplice essere umano avere tanta sensibilità? In fondo ero arrivato per dannarlo e lui mostrava la sua pietà.

Allora decisi di dialogare ancora con lui.

“Perché parli di Lucifero? Cosa puoi tu sapere di lui? “

“Pura supposizione dell’esistenza del Male, visto che tu qui mi significhi che il Bene supremo esiste, cosa cui io sino ad oggi non credevo o meglio non consideravo.   Ma tralasciamo questi discorsi e parliamo di noi, angelo, di quanto siamo simili, di quanto i nostri doni ci rendano unici e soli… perché lo so, tu sei solo, unico e nero, quanto io sono deforme nel corpo e nello spirito. Quanto dolore accompagna la nostra esistenza, ma tu, tu sei infinitamente più disperato di me. Fra poco tu chiuderai la mia esperienza mortale, nessuno lo farà con te. Dimmi, quella notte in Egitto quando uccidesti tutti quegli infanti innocenti cosa hai provato? Cosa potevano aver mai fatto? E cosa ti ha detto Dio proprio quella notte del tempo terreste…”

Mi vide piangere a dirotto. Aveva riaperto una ferita. Casa per casa ero andato, ed uno ad uno li avevo uccisi ed in ogni gesto uno strazio infinito. Potevo veramente dargli una spiegazione? Ma lui sapeva tutto; l’uomo che aveva scritto l’Infinito non doveva chiedere, perché aveva visto Dio.

Lo lasciai nel suo letto a tribolazione finita, povero corpo cui ora non apparteneva più lo spirito e mi sovvenne un altro dialogo in un altro tempo – come dicono gli uomini – sempre con un poeta, esseri strani.

IL GENERALE

Lo trovai a notte fonda nella sua tenda, avvolto nel manto rosso senza la corazza leggera, che stava posata a terra, errante disperato, urlante agli dei che lo avevano abbandonato. La notizia gli era appena giunta sotto la forma di una testa grondante sangue: suo fratello, l’amato fratello, decapitato dagli odiati romani, maledetti, mille volte maledetti! Quando si avvide della mia ombra nera innanzi a lui pensò ad un messaggero degli dei, lui non poteva sapere, ma non ebbe paura alcuna. I suoi occhi di fuoco esprimevano tutta la certezza di essere nel giusto e di avere ben chiara la propria importanza; sembrava dirmi: “bada chiunque tu sia, io sono Annibale l’invincibile, il nemico giurato di Roma”.

“Soffrirai tanto, – gli dissi –  la tua punizione sarà lenta e perniciosa: sconfitto, vagante e tradito sconterai la tua pena.”

Esplose in una risata sinistra. “Questo dolore che mi muove, proprio al centro del mio cuore, è e sarà eterno; non so chi tu sia e non mi interessa, obbedisco solo al mostro che ogni minuto, ora, giorno, mi divora inesauribile, certo non a te malgrado tu sia foriero di cattiva fortuna!”

“Bada – gli risposi – il mio potere è enorme rispetto al tuo di piccolo uomo! Ti porto la più alta delle punizioni perché tu hai deciso di impersonare l’odio: il male come dici tu, ti rode e provoca sofferenze infinite. La giustizia sarà di pari forza!”

“Vattene! Ho altro a cui pensare, debbo riorganizzare il mio esercito e la mia strategia, convocare i miei luogotenenti, quei vermi romani non aspettano, colpiscono veloci. Ma voglio solo farti una domanda: visto che conosci il futuro degli dei, quale sarebbe dunque la tanto atroce pena? “

“La solitudine degli amici, l’esilio dalla patria cui tutto hai dedicato, il tradimento di un amico che ti consegnerà ai tuoi odiati nemici… Ti basta? Tutto attorno sarà finito, l’odio porterà solo cenere…”

“Ed io terrò fede al giuramento prestato da bambino e mi ucciderò! – mi urlò in faccia – credi abbia paura della morte, Angelo?”

Confesso che mi sorprese, il demonio mi parlava nuovamente, il nostro primo scontro era stata la sua disintegrazione ed eccone qui una scheggia dentro all’involucro di un grande uomo della storia umana … So già che morirà l’uomo, non il male che sta in lui, eppure alle volte spero che quel male si estingua o che l’uomo lo sconfigga…alle volte riesce…

La fine di quel male sarebbe l’esaurirsi del mio compito e forse veramente potrei trovare la pace, nuovamente contemplare la bellezza di Dio, e deporre questa spada che tanto mi pesa da sempre avere con me, abbandonare questo scranno solitario e questa volta ambire all’eterno futuro di Dio.

“Una vita davanti” IX e ultima parte

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La seguente conclusione del testo teatrale è dedicata al caro amico Luca Grillotti, che ci ha prematuramente lasciati questa settimana, e di cui oggi siamo purtroppo costretti a celebrare l’ultimo saluto; mai come in questo momento il tema del destino – fulcro dominante di tutto la vicenda descritta in questa piece – è evidente e crudele, nella sfortunata circostanza che ci ha privati del sorriso contagioso di Luca.

In tutti quelli che lo hanno conosciuto ha lasciato un grande ricordo, di persona onesta e leale, oltre che molto intelligente, e penso che, in fondo, questa sia la cosa migliore che un uomo possa fare nella sua vita.

Ciao Luca, fai un buon viaggio tra le tue montagne, e giunga un abbraccio da parte mia a tutta la famiglia, vi sarò sempre vicino.

Ultima scena:  la madre lavora in casa, si occupa delle faccende domestiche mentre il figlio è adagiato pigramente nel letto, lei gli parla, e lui risponde a monosillabi, lei allora lo rimprovera perché lui non fa niente da giorni, e sta quasi sempre accasciato sul letto a guardare il soffitto, ma lui non replica quasi.

Ad un certo punto, suonano alla porta di casa loro e la madre va ad aprire:

entra a sorpresa l’uomo che nella scena del labirinto era l’amante di Sibilla, con una borsa ventiquattr’ore in mano.

Amante: Buon giorno signora, sono dell’assicurazione.

Madre: Buon giorno, mi dica.

Amante: Ecco, vi eravate sentiti con il mio principale; se ricorda sono venuto a farvi firmare i documenti per la liquidazione della polizza vita di suo marito.

Madre: Ma certo, è vero, mi scusi, ma con tutto quello che ci è successo recentemente, mi ero dimenticata che sarebbe passato oggi: è tutto a posto con la pratica?

Amante: Sì, sì, stia tranquilla, tutto fatto. Dovete solo firmare la quietanza lei e suo figlio, cioè  i due eredi, ed entro la settimana prossima riceverete la cifra inerente la liquidazione della polizza sul vostro conto corrente. (tira fuori un foglio compilato e una penna)

Madre: Bene, venga, si accomodi, la prego. Io dove devo firmare?

Amante: Qui in fondo, basta una sua firma e poi quella di suo figlio accanto.

Madre: Va bene, ecco fatto (firma). Ora lo chiamo subito. Ennio! Ennio, vieni, c’è l’impiegato dell’assicurazione per le pratiche della successione, vieni a mettere una firma.

Ennio (alzandosi dal letto a fatica): Va bene, arrivo.  Eccomi qua.

Amante: Buongiorno, piacere. (gli porge la mano)

Ennio gli stringe la mano, ma quando lo guarda in faccia ha un sobbalzo, e non profferisce parola.

Madre: Su, non stare lì impalato, devi firmare il modulo anche tu: il signore è venuto apposta per questo!

Ennio, senza smettere di guardare il suo rivale con estremo odio, firma il modulo. L’altro uomo fa finta di nulla, pur essendo a disagio visto l’atteggiamento del giovane.

Madre: Allora, siamo a posto?

Amante: Sì, per la successione sì.

Infine, ho un ultimo compito da portare a termine: il mio principale ha provato più volte a mettersi in contatto con suo figlio in merito ad una comunicazione che doveva inoltrargli, ma poi, saputo che io dovevo venire da voi, ne ha approfittato per lasciare a me tale messaggio.

Madre:  Ah si? Ma di cosa si tratta?  (poi rivolta al figlio) Caro, ma tu non ne sai nulla?

Ennio (sempre incurante di quello che dicono, e concentrato sul prossimo amante di Sibilla): No, non so di cosa possa trattarsi.

Amante: Non saprei dire, ho semplicemente da consegnarle questa busta a lei indirizzata. Ecco, prego. (la dà al giovane, che continua a guardarlo con odio; a questo punto, visto l’atteggiamento ostile, l’uomo, sempre più imbarazzato, conferma di aver adempiuto a tutti i suoi compiti e si accomiata, con la madre che lo ringrazia sentitamente per la sua solerzia.)

Madre: Certo, però che potevi essere più educato con quel signore tanto gentile. Si è scomodato a venire qui per farci firmare tutto! Ma allora non la apri la busta, non sei curioso?

Ennio: Non mi interessa, sarà della semplice pubblicità di qualche loro prodotto; sapendo che siamo clienti da una vita, e papà non c’è più, vorranno appiopparmi qualche altra cosa per incrementare il loro utile e sostituire la polizza riscattata. Poi la apro, non ti preoccupare.

E torna a buttarsi sul letto, con la lettera in mano.

A questo punto la madre, borbottando per lo strano comportamento del figlio, e scuotendo la testa contrariata, rinuncia a discutere ed esce di scena.

Ennio, sdraiato sul letto, dice fra sé e sé: Ma possibile che fosse veramente quell’uomo? Eppure io l’ho osservato bene, era identico in tutto e per tutto all’ipotetico amante di Sibilla, quello del labirinto…Ma ora che cosa diavolo vorrà significare quest’altro mistero? Quando mi libererò da questo sortilegio?

Dopo di che guarda la lettera per un po’, poi la apre distrattamente, e la legge con noncuranza.

Ennio: In merito alla sua richiesta di assunzione, siamo lieti di comunicarle che le sue caratteristiche e competenze corrispondono ai nostri  interessi nell’ambito della ricerca di personale che stiamo effettuando, e la invitiamo pertanto a recarsi presso i nostri uffici lunedì 27 corrente mese per un colloquio con il responsabile del personale…

Ma chi diavolo è che mi scrive? Io non ho mai avanzato nessuna richiesta di assunzione…Deve esserci un equivoco…Avranno sbagliato persona.

Lascia cadere la lettera senza alcun interesse, ma resta pensoso; poi la riprende in mano.

Ennio:  Ma è il responsabile dell’assicurazione! Ora ricordo: gli avevo inviato una domanda di assunzione per gioco mesi fa, in procinto di laurearmi, soltanto per vedere se mi avrebbero mai risposto: e ora loro mi vogliono assumere, senza che io abbia nemmeno dovuto fare alcuno sforzo!

Ahahahah! Ma certo, è ovvio.  Del resto, era destino… Un luminoso futuro da assicuratore! Diventerò ricco e potente, avrò una bella casa, una macchina lussuosa, e soprattutto…Sì, soprattutto dei grandi amici tra i miei colleghi!

Uno l’ho appena conosciuto: sarà un fido collaboratore sul lavoro, e inoltre avrà persino il piacere di intrattenere la mia signora nel privato, in modo che lei abbia un diversivo nei giorni in cui si stanca del sottoscritto! Una bella comodità a ben pensarci!

E’ tutto combinato e amalgamato in un incastro perfetto…

E per il resto la mia vita è in discesa: la donna che amo è pronta a sposarmi e a rendermi felice; pazienza per i figli, ma in fondo non si può aver tutto…

Sono veramente un uomo fortunato, non posso chiedere niente di più al Fato!

Mi arrendo Destino, hai vinto tu, che sia di me quello che hai deciso, d’ora innanzi sarò per sempre un tuo obbediente servitore!

A questo punto si mette a ridere senza ritegno, in modo sguaiato e sempre più forte, mentre si contorce; il riso alla fine si confonde quasi con il pianto, in un finale parossistico.

Contemporaneamente si risente la solita musica, che crea un collegamento tra le profezie e la realtà, il destino si sta compiendo pienamente.

Rientrano allora in scena insieme la madre e la fidanzata, che si tengono abbracciate, e lo guardano, prima un po’ stupite e preoccupate per la reazione che sta avendo, ma poi rassicurate, quando vedono la lettera, che lui ha lasciato cadere per terra: la mamma la legge e la fa leggere a Sibilla; alla fine entrambe sorridono più serene e si incamminano fuori dalla scena, lasciandolo solo, mentre lui continua a ridere e piangere contemporaneamente a squarciagola, sempre più alienato dal contesto che lo circonda.

Sipario

FINE

“Una vita davanti” VIII parte

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Cambio di scena: il figlio è a letto, sdraiato, sta sonnecchiando; ad un certo punto si sente il rumore di una porta che si apre, al che lui pare ridestarsi dal sonno e si tira su, con la schiena appoggiata al cuscino; all’improvviso entra nella camera il padre, o meglio, il suo fantasma.

Ennio: Papà, ma cosa ci fai qui?

Il padre lo guarda, senza dire nulla, e si siede su una sedia davanti al suo letto, in modo da vederlo bene in faccia.

Ennio: Ma….ma come è possibile? Ma tu non eri morto?

Padre (senza rispondere direttamente alla domanda): Sono venuto per salutarti, e per parlarti.

Ennio: Ma cosa vuol dire tutto ciò? Io non ci capisco più nulla.

Padre (vago): Capirai, capirai, un giorno capirai…

Ennio: Mi pare che una maledizione si sia impadronita della nostra casa e della nostra famiglia…Sembrava andare tutto bene, eravamo felici; io stavo realizzando i miei sogni…E all’improvviso è cambiato tutto…Dopo quel che ho visto all’università.

Padre: Ecco, è proprio di questo che volevo parlarti.

Ennio: Ma allora, dimmi, dimmi! Rivelami una chiave di lettura per cercare di comprendere cosa sta succedendo, e cosa devo aspettarmi. Mi sembra di vivere in un sogno, o meglio in un incubo. Che significato ha quello che è successo dopo la mia laurea?

Padre: Carissimo e amato figlio mio, quello che ti è stato mostrato è molto più reale di tutto quanto ti è accaduto dalla nascita sino ad ora; hai avuto la possibilità di capire che corso seguirà la tua vita, pur tra alti e bassi, come un fiume che, alimentato da tanti torrenti, districandosi tra momenti in cui il suo letto è più o meno corposo, comunque finisce sempre e invariabilmente nello stesso mare.

Ennio: Ma quindi, quello che mi appariva assurdo, quasi una burla, è la realtà? Devo credere che la mia vita futura è già tutta scritta, e io non posso modificarla se non molto parzialmente? Ma allora che senso ha impegnarsi nelle cose?

Padre: Vedi, purtroppo è tipico dell’uomo credere di avere un controllo sulla propria esistenza, e di riuscire a modificarla in senso significativo. Alcune cose sono sicuramente perfezionabili, ed è giusto che ci si impegni nel farle, è una caratteristica dell’uomo di buona volontà e con intelletto cercare di migliorare, ma purtroppo bisogna anche accettare come immutabile un elemento che è ampiamente superiore alle nostre teste, e che si chiama Destino.

Ennio: Ma quindi anche a te era stato mostrato il tuo futuro? Hai sempre saputo che cosa ti riservava la vita?

Padre : Prima o poi capita a tutti di comprendere cosa li aspetta, e rendersi conto che i loro tentativi sono piuttosto vani. Succede in modi spesso diversi, ma il risultato è che ad un certo punto si tirano i remi in barca, e ci si adatta alla propria sorte.

Ennio: Ma come, succede a tutti? E quelli che non si adattano e continuano a lottare?

Padre: Nessuno glielo impedisce, ma i loro sforzi sono quasi sempre sostanzialmente inutili e destinati al fallimento. Prima ci si rende conto che molte cose sono già scritte e non modificabili, meno si soffre.

Io lo so da anni, e ora anche tu hai davanti un futuro che in fondo potrebbe  essere ben peggiore: non cercare di contrastarlo, fai del tuo meglio nel lavoro e nella vita privata, e nulla più, in caso contrario resterai terribilmente deluso.

Ennio: Ma papà, non mi pare giusto questo. E allora tutti i proclami sull’impegno, sullo studio, il libero arbitrio? Se quasi tutto è già scritto, tanto vale lasciarsi vivere e non impegnarsi seriamente in niente.

Padre (in tono rassegnato) : Eh…Sapessi quanta gente vive così. E’ giusto fare del proprio meglio, siamo uomini in fondo…Ma anche virilmente accettare la nostra sorte: è pericoloso tentare di combatterla, essa è un mostro con mille tentacoli, sempre pronto ad avvilupparti nelle sue spire.

Ennio: Ma allora, quello che mi hai insegnato? Il tuo ordinamento morale, tutta la diligenza e la serietà che hai cercato di trasmettermi nello studio e nella vita privata?

Padre: Una cosa non esclude l’altra, è giusto vivere secondo un codice morale, rispettare le leggi e le regole, essere corretti nei rapporti con l’altro sesso e con le persone in genere, e fare sempre del proprio meglio in ogni situazione. Ma il tentare di modificare quello che il Fato ha deciso per noi, è stupido e inutile, destinato a sconfitta certa.

Ennio: Per cui, secondo te, io dovrei adattarmi a condurre questa esistenza prestabilita, sposare Sibilla, malgrado non sia sicuro di amarla, senza poter avere figli da lei e addirittura sapendo che probabilmente mi tradirà, diventare un assicuratore quando il mio sogno è sempre stato scrivere, e vegetare senza alcuna speranza, nella routine quotidiana, sino a che la morte non ponga fine a questo nulla senza senso.

Padre (sorridendo tristemente): Ennio mio, tu non immagini quanti conducono una vita simile, anzi spesso ben peggiore. E’ praticamente il paradigma che fa andare avanti l’umanità da millenni. Non c’è niente da fare, la ribellione a quanto già deciso non serve assolutamente a nulla, se non a farti stare peggio, e può condurre addirittura alla pazzia.

Ennio: Ma è assurdo, quanto mi dici mi pare incredibile.

Padre: Non ho forse io accettato la mia  malattia,   senza    quasi    combatterla,         essendo  sicuro  che  mi  avrebbe  portato  a  morte  certa?  Eppure, avrei potuto benissimo fare delle cure diverse,  per cercare di arginarla e vivere di più.  Ma a cosa sarebbe servito? Solo a prolungare la mia agonia. Sapevo bene già da anni come sarebbe finita… E lo stesso ho fatto  in  tutti gli aspetti della vita,  sia privata che lavorativa.

Ennio (piangendo): Non è giusto, no, non è giusto, povero papà

Padre:     Non piangere,  figlio  mio.  Non serve …  Con il tempo è normale che ognuno di noi arrivi a una presa di coscienza,  su come  funzionano  il  mondo e la nostra esistenza.

Ennio: Ma allora è vero, è tutto già scritto. Siamo imprigionati in un labirinto da cui possiamo uscire solo da morti

Padre: E’ così purtroppo. Ma pensa che ti verranno riservate anche tante cose piacevoli, non solo negative: cerca di gioire di queste, e basta. Ora che hai capito, io me ne devo andare.

Ennio: No, papà, ti prego, non andare. Voglio che tu stia con me.

Padre: Mi dispiace, ma non è possibile. Il destino si deve compiere sino in fondo.

Ennio: No, no, ti supplico, non andare. Ti devo fare ancora una domanda, è troppo importante!

Padre: Non c’è più tempo.

Ennio: Ti prego, ti prego, non andare. Almeno rispondi ancora a questo: me lo devi, dopo quanto mi hai rivelato.

Chi decide il nostro destino, se non siamo noi? Chi ha organizzato tutta questa enorme rappresentazione teatrale? E perché?

E’ una entità che almeno ci ama, il Dio che mi hai insegnato a pregare da bambino, e che lo fa per il nostro bene, o è invece tutto casuale e deciso da una sorte non ben identificata, totalmente indifferente alle vicende umane? Dimmelo, dimmelo, svelami il segreto!

Ma il padre, così come era venuto, scompare in modo evanescente dalla camera, e lascia il figlio solo con i suoi dubbi irrisolti.

Ennio (urla a perdifiato):  Nooooooooooooo!!!!! Papà!!!!

Passano alcuni istanti, ed entra in scena un personaggio ben vestito, con incedere lento e solenne, che si ferma davanti al letto, guardando Ennio: è il rettore dell’università.

Rettore: Ciao Ennio, ti faccio le mie condoglianze per la perdita di tuo padre. Come va?

Ennio (con fare risentito e in tono ironico): Rettore, anche lei qui? Che bella sorpresa!

Come vuole che vada? Sa bene quel che mi è successo: dopo quello che lei mi ha fatto vedere, è cambiata tutta la mia vita, e in peggio ovviamente.

Rettore: Mi dispiace, ma era inevitabile. Tu adesso non te ne rendi conto, ma, sostanzialmente, sei fortunato.

Ennio (in tono sprezzante): Fortunato, io? Ma lei ha voglia di scherzare, è venuto a prendermi in giro? Come osa darmi del fortunato, dopo tutto ciò?

Rettore: Non ti arrabbiare, capisco che ora tu sia sconvolto, ma ti assicuro che nel tuo caso la sorte è stata molto meno dura rispetto alla media. Tutti noi ci affanniamo per cose che spesso non riusciamo a raggiungere, pur impegnandoci al massimo. Disgrazie e delusioni fanno parte della vita di ognuno, lo vedrai, e la maggioranza degli uomini deve patire sofferenze superiori alle tue in fondo.

Ricordati che tu sei nato in una bella famiglia, in una città carina, in uno stato opulento, sei un ragazzo estremamente colto e intelligente, sposerai una ragazza affascinante che ti ama, avrai fortuna sul lavoro: molti farebbero qualunque cosa per essere al tuo posto, anche se ora ti pare impossibile.

Certo, non potrai realizzare tutti i tuoi progetti, dovrai rinunciare a molti sogni, e avrai dei problemi grandi e piccoli, ma la vita è questo.

Ennio: Ma io non credevo certo che la vita fosse solo un divertimento, la cosa per me inaccettabile è che esista per ognuno un destino già scritto e non modificabile, questa cosa mi fa impazzire.

Rettore: Eh, caro mio…

Il mondo è sempre andato avanti così, e così sarà sinché ci saranno uomini sulla faccia della terra. E’ una legge non scritta.

Inoltre tu almeno hai avuto la fortuna di conoscere per tempo il disegno che ti è riservato per il tuo futuro, pensa che non a tutti è svelato in modo tanto chiaro.

Ora puoi programmare molte cose cercando di vivere nel modo migliore, o crogiolarti nella disperazione, ma questo non servirebbe a nulla.

Ennio: Ma la stessa scuola che lei rappresenta, e che ho frequentato con tanto impegno e sacrificio, allora a cosa serve? E perché proprio a lei è toccato mostrarmi il mio destino?

Rettore: Tutto quello che si impara, prima o poi ci sarà utile, ma non puoi pretendere di plasmare la realtà a tuo piacimento, mi spiace.

Fosse così semplice…Io sono stato un tramite tra l’età dell’illusione e quella della coscienza.

Considerami come una sorta di traghettatore: la scuola serve anche per questo.

Ennio (con calore e amarezza): Io invece sono molto deluso e amareggiato da lei e dalla scuola, professore.

Mi apparite come il simbolo di una struttura sociale che non incentiva la creatività e la cultura, ma assegna ad ogni studente, anche il più brillante, un suo compito predefinito, frustrandone i sogni.

Rettore: Da un certo punto di vista è così. Ma fa parte del mio mandato.

Le illusioni e le false aspettative sono molto più pericolose, te lo assicuro.

Addio Ennio, ti auguro buona fortuna.

A questo punto, senza aggiungere altro, il rettore se ne va.

Si risente dopo pochi istanti la musica, simboleggiante il destino che avanza in modo inesorabile, mentre il ragazzo si lascia ricadere supino nel letto, con la testa sul cuscino.

Cambio di scena: entra la madre da sola e fa un monologo, riflettendo a voce alta.

Madre: Siamo quasi alla fine di tutti questi nostri patimenti.

Che periodo devastante abbiamo passato, e soprattutto lui, povero figlio, quante delusioni e notizie negative ha dovuto sopportare: non era certo pronto a tutto ciò, forse è stata colpa mia, avrei dovuto abituarlo gradualmente nel corso degli anni alle avversità, e invece l’ho cresciuto nascondendogliele, avvolto nella bambagia, come fanno tante mamme, per troppo amore; l’ho coccolato e fatto sentire immortale e invincibile, mentre è un uomo come tutti gli altri, con le sue debolezze.

Sì, è vero, mio marito, pover’uomo, me lo ha sempre detto: non crescerlo vezzeggiandolo così tanto, deve prendere ogni tanto anche lui delle facciate, per capire che non è tutto un gioco.

Ma io no, non ce la facevo, lo amavo troppo, era sangue del mio sangue, è una parte di me, non riuscivo a tollerare che soffrisse, era troppo giovane e indifeso.

Solo che ora siamo arrivati a questo punto, ed Ennio ha avuto un risveglio troppo brusco per poter essere assorbito senza traumi: non so come comportarmi, lui viveva di sogni, e noi non abbiamo fatto quasi mai nulla per tenerlo con i piedi per terra.

Ma perché la vita deve essere così complicata? Non potremmo vivere in modo più semplice e accontentarci di quello che abbiamo? Mentre invece coltiviamo tanti sogni e desideri, che poi immancabilmente non si realizzano e ci portano all’infelicità.

Dovremmo limitarci a vivere, senza pensare troppo: questo glielo dicevo, sì, ma lui aveva tante idee, tanti progetti, tanta voglia di iniziative che lo appagassero.

Io non ho mai avuto il coraggio di frustrare le sue aspirazioni, e ora cosa gli resta?

Un pugno di mosche, dovrà accontentarsi di quello che il destino ha in progetto per lui.

Già, il destino: nessuno lo vede, e lo sente, ma è sempre con te, come un convitato di pietra che ti segue ovunque, pronto a indirizzarti verso qualcosa che non necessariamente vorresti.

Siamo veramente come dei fuscelli in un oceano che ci sballotta a suo piacimento, senza poterci difendere in alcun modo.

Eppure questo io l’ho sempre saputo, sin da bambina, ho smesso quasi subito di farmi illusioni. Prima o poi capita a tutti, forse sarebbe meglio se succedesse il prima possibile, in modo da non restare disillusi dopo.

E ora cosa posso fare? Sono sola, mio marito è morto, e mio figlio è disperato, ha davanti tutto il nulla eterno che lo attende…

Lui pensava di poter cambiare le cose a suo piacimento, ma le cose non si modificano veramente, a meno che non sia già scritto, non si può cambiare nulla.

Nessuno, nemmeno l’uomo più potente e intelligente del mondo può contrastare la propria sorte: tutti devono attenersi a quello che è stato loro destinato.

Capi di stato, miliardari, artisti geniali, molti credono di essere indistruttibili, ma basta un piccolo problema fisico, o un piccolo contrattempo, che poi diventa enorme all’improvviso, e gli cambia la vita: tornano ad essere degli agnellini, senza più alcun potere e senza più alcuna speranza, in totale balia degli eventi avversi.

L’unica cosa sensata che possa fare adesso è stargli vicino, cercare di accompagnarlo verso il suo futuro, del resto l’ho praticamente già costretto a restare qui con me, invece di trasferirsi per frequentare il master a cui lui anelava: è stato una specie di ricatto, lo riconosco, ma l’ho fatto a fin di bene, più per lui che per me.

Ora dovrò farmi aiutare da Sibilla: lei gli vuole bene, ed è più matura di lui; quella ragazza è estremamente intelligente, oltre che bella, ha capito prima di tanti che bisogna adattarsi alle situazioni, e non cercare di contrastare gli eventi, pena la perdizione.

Gli starà vicino, e anche se avranno problemi, come tutti, sarà la sua ancora di salvezza, l’anello di congiunzione con la realtà fattuale, quella dura e vera del quotidiano, fatta di cose concrete e non chimere.

Devo subito parlarle, dobbiamo cercare in tutti i modi di aiutarlo entrambe, in questo momento così terribile per lui.

Ne usciremo tutti, anche se non sarà semplice.

Ma del resto la sostanza è questa: la vita prima o poi ti presenta il conto, e non puoi che accettare le cose come stanno, non c’è niente altro da fare.

A questo punto la madre esce temporaneamente di scena.

“Una vita davanti” VII parte

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Il giovane e la madre ritornano a casa con dei bagagli, sono stanchi e tristi.

Madre:  A questo punto non ci resta che pregare. Abbiamo fatto tutto quello che potevamo, ora speriamo in un miracolo. E dire che fino a poche settimane fa pareva stare tanto bene. E poi anche i medici, tante rassicurazioni sull’intervento, sulla cura, e poi ora non sanno più che pesci pigliare, e cosa dirci. Sembra quasi che si affidino al caso, fanno dei tentativi sulla pelle della gente.

Ennio:  Ma no, mamma, non dire così. In fondo l’operazione è andata bene tecnicamente. Nessuno poteva pensare che le metastasi fossero già così diffuse, certo lui aveva dolori da un po’, ma chi poteva immaginare una cosa del genere?

Madre: Mi si stringeva il cuore a lasciarlo solo in quella clinica. Ma era più di un mese che non venivamo a casa; io l’ho vegliato giorno e notte. Almeno speriamo che tutto il denaro che abbiamo speso serva a qualcosa. E pensare che era il piccolo patrimonio che avevamo costruito per te e per i tuoi studi…

Ennio: Ma non ti preoccupare per quello. Speriamo solo che non siano stati sforzi vani…Il denaro va e viene, non mi arrenderò tanto facilmente in merito ai miei progetti. 

A proposito, senti, il programma è questo: domani alle 8 prendo il treno, alle 15 ho il colloquio con la casa editrice a Roma, e poi rientro.

Io sono pronto ad accettare qualunque cosa mi propongano, mi basta fare un’esperienza nel campo che amo; se mi assumono potrò guadagnare il denaro necessario per il master e nel contempo fare qualcosa che mi piace.

Così potrò pagare anche un affitto, magari in periferia. Saranno mesi di sacrifici, ma niente mi impedirà di provarci fino in fondo.

Madre: Va bene, te lo auguro caro, ma ora andiamo a letto. Tu domattina devi ripartire, e io dopodomani torno da papà.

I due si accomiatano con un abbraccio, il giovane si mette a letto e si addormenta quasi subito, essendo molto stanco e provato.

Nel buio della scena però poco dopo irrompono due figure sinistre, con delle maschere inquietanti in volto, e vestite completamente di nero, che confabulano tra di loro, accompagnate dalla stessa musica del labirinto. Lui continua a dormire, ma si volge continuamente in modo nervoso, come se sentisse quello che i due personaggi dicono, si capisce che la scena allude ad una sorta di sogno del protagonista.

Personaggio 1: Sei un illuso, non riuscirai mai a inseguire i tuoi sogni.

Personaggio 2: Non vuoi capire che il destino è scritto, non puoi farci nulla.

Personaggio 1: E’ inutile che ti dibatti. Sì, è un sogno, ma è più reale di tutte le realtà…

Personaggio 2: Guardalo lì, il grand’uomo che vuole contrastare il destinoAhahah! (ride sguaiatamente)

Personaggio 1: Ma se ha paura anche di un sogno…Dice che non si lascia condizionare da nessuno. Ma non sa cosa vuole veramente, un piccolo episodio può cambiare la sua esistenza…Come peraltro quella di tutti…Crede di poter scegliere…Sì, forse può scegliere il tipo di pizza che mangerà domani…

Personaggio 2: Gli uomini sono veramente patetici. Non accettano che il mondo si muova secondo criteri e leggi che non possono modificare. Hanno l’idea di poter controllare tutto, e invece non controllano nulla. Mi fanno schifo!

Personaggio 1: Tutto è già scritto, giovane, non puoi farci nulla. Devi solo accettare le cose come stanno, se le contrasti sei destinato alla pazzia.

Personaggio 2: Eppure eravamo stati abbastanza chiari con te, avevi avuto già sin troppe informazioni. Non meriti veramente nulla, la tua testardaggine è davvero irritante.

Personaggio 1: E allora, dato che sei l’artefice del tuo destino…E vuoi inseguire i tuoi sogni…Vediamo come fai a ribellarti a quanto è stato deciso…

Personaggio 2: Povero stupido, ora voglio proprio vedere.

I due prendono il ragazzo, lo rivoltano e lo colpiscono pesantemente sulla schiena con dei bastoni, lui urla dal dolore, senza però svegliarsi.

Poi si mettono a ridere sguaiatamente, e accennano ad un balletto, mentre ricomincia la solita musica.

Infine se ne vanno, sempre ballando e cantando di gioia, quasi volessero festeggiare.

Al mattino Ennio cerca di alzarsi, ma ricade a letto: ha la schiena completamente bloccata.

Si mette a urlare dal dolore e dalla disperazione, perché non può andare a prendere il treno, il suo è un lamento continuo, accorre la madre a soccorrerlo, e ad un certo punto arriva il dottore che lo visita, e diagnostica una febbre reumatica, per cui dovrà stare a letto per alcuni giorni.

Il giovane resta poi solo nella stanza, bloccato a letto.

Ennio: Ma allora, era tutto vero, e non un semplice sogno?

Ma come, come è possibile tutto ciò?

Qua siamo nel metafisico.

No, non è possibile, non è successo nulla di quanto ho sognato. Semplicemente, i miei nervi sono tesi come corde di violino, ed ho immaginato tutto, certo la suggestione è una brutta bestia.

Avrei dovuto riposarmi un po’ prima di ripartire, invece tutto questo tour de force mi ha fiaccato il corpo, e così ho avuto un crollo psicofisico.

Ma poco male, il colloquio con l’editore ormai è saltato, pazienza.

Già, ma non tutto è perduto, troverò qualche altra occupazione a Roma, un qualunque lavoro impiegatizio o anche altro, magari come cameriere in un ristorante, l’importante è riuscire a mantenermi per qualche mese; l’inizio del master si sta avvicinando, e niente e nessuno potrà impedirmi di frequentarlo…

Ora però devo riprendermi, ho la schiena completamente bloccata, che male atroce.

Ma con un po’ di punture sarò di nuovo in piedi…

Che esperienza, nel sogno ho somatizzato il dolore che mi stava venendo…incredibile.

La madre lo assiste per un paio di giorni, lui sembra potersi riprendere e quindi lei sta per ripartire alla volta della clinica dove è ricoverato il marito, ma all’improvviso arriva una telefonata.

Madre: Pronto! Sì, dottore, mi dica…

Passano alcuni istanti, poi lei lascia cadere il telefono e guarda nel vuoto.

Ennio: Mamma, mamma, cosa c’è? Cosa è successo? Papà è peggiorato?

Madre (con voce priva di emozione, come se leggesse una notizia): Era il chirurgo che lo ha operato. Dice che papà è morto…Ha avuto un aggravamento improvviso…

Ennio (dopo alcuni secondi di silenzio assoluto, urlando): Come morto, come è possibile? Ma i medici hanno detto che stava reagendo bene! E’ morto da solo come un cane, mentre noi eravamo qui, a causa mia? No, dimmi che non è vero, ti prego!

Madre: Non è colpa tua, era il suo destino…Il destino non si può contrastare…Lui lo sapeva…

Ennio (piangendo):  Ma quale destino? Basta con questo dannato destino! Non esiste nessun destino, è morto perché non è stato curato come si doveva!

Madre: No. Non c’era niente che potessimo fare per lui, non poteva che finire così…

Ennio: Ma perché dici così?

Madre: Perché evidentemente era scritto. Ora dobbiamo occuparci del funerale, bisogna chiamare qualcuno delle pompe funebri per portarlo qua. Non possiamo fare più nient’altro.

Ennio (ormai esasperato): Ma cosa vuol dire che era scritto? Io non ci credo, e non ci crederò mai! Voglio essere libero di decidere la mia vita e inseguire i miei sogni.

Madre (all’improvviso urlando e piangendo disperata) : Ancora mi parli dei tuoi sogni, pure in un frangente come questo? Non vedi come sono disperata per tuo padre? Sei veramente insensibile. Smettila di tormentarmi con i tuoi vaneggiamenti, non puoi fare nulla per cambiare il corso delle cose.

Adesso ti chiedo una cosa importante: promettimi che non andrai a Roma, e resterai qui con me. Promettimelo, io ora non posso perdere anche te!

Ennio: Ma, mamma, cosa dici? Io non volevo essere insensibile…

Madre: Ma allora tu vuoi farmi morire veramente? Promettimi ti dico, Ennio, sennò muoio anch’io!

Ennio: Ma non lo so, ora non è il momento, dobbiamo pensare a papà…poi ne parleremo.

Madre (sempre più sconvolta) : Ma allora vuoi che muoia anch’io? Promettimi, altrimenti mi avrai sulla coscienza! Prometti!

Ennio (spaventato): D’accordo, va bene, lo prometto. Ma adesso calmati, ti prego.

A questo punto, leggermente rinfrancata, la madre esce di scena mestamente.

Ennio: Ma allora è tutto vero…Non si tratta di un sogno…Il destino…Nessuno può contrastarlo…Io mi sono illuso, e ora mi sveglio amaramente. Ogni tentativo è vano? Non possiamo modificare il nostro percorso, esso è già prestabilito. Avrei dovuto dare ascolto alle profezie. Almeno ora sarei a vegliare su mio padre…Ma allora a cosa serve tutto il nostro affaccendarsi, per vegetare in una vita mediocre, senza poter decidere niente di veramente importante?

Che amara scoperta, e a che prezzo l’ho capito! Non è giusto, mio padre non doveva finire così, morto solo come un cane, in una stanzetta di ospedale lontano da casa.

E io a cullarmi in sogni inutili, ad illudermi di contare qualcosa su questo mondo, mentre non sono che un manichino nelle mani del fato.

Ma nessuno può obbligarmi a recitare questo ruolo, io non lo voglio, esco di scena!

E fa per avvicinarsi alla finestra, la apre e guarda di sotto per lunghi istanti.

Ennio: Povera mamma, devo pensare almeno a lei.

Torna indietro molto lentamente, e si lascia ricadere pesantemente nel letto.