da Giovanni Ollino | Apr 24, 2024 | cronache, I racconti di Vittorio Nicoli
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IL GENERALE
Era notte fonda quando uno dei soldati di guardia entrò trafelato nella sua tenda: “Generale! Generale! Tremenda sciagura, venite voi stesso a vedere!”
L’uomo era sconvolto, malgrado cercasse di mantenere ancora un atteggiamento marziale.
Il generale lo squadrò sorpreso e quasi incline ad una reazione di rabbia per un contegno venuto meno, poi decise di capire cosa fosse accaduto, cosa avesse turbato così tanto il suo soldato.
Uscì dalla tenda con gesto imperioso e subito fu avvicinato dai suoi subalterni: i loro volti lunghi e terrei tradivano la calma dei gesti, avevano paura. Proprio loro, vincitori di tante battaglie in terra straniera, capaci dell’impossibile, audaci sino alla follia, ora innanzi a lui bambini piagnucolanti.
Fu allora che vide la testa ed ebbe un moto dallo stomaco, dal cuore, dal cervello: suo fratello… proprio la testa di suo fratello … maledetti romani, come uno scorpione lo avevano colpito in modo inatteso nel cuore, la rabbia montava da basso e faceva fremere le membra, il cervello già valutava le conseguenze di quella sconfitta.
Erano ormai dieci anni che combatteva sul suolo straniero, passando di vittoria in vittoria, seminando il terrore nelle popolazioni italiche, un nemico di nome Roma, la città che ambiva a dominare il mondo. Proprio no, non avrebbero avuto nulla ai loro piedi quei presuntuosi, malgrado la loro organizzazione, la loro forza, le loro leggi, sarebbero caduti per la loro boria. Aveva sterminato un esercito enorme a Canne, senza alcuna pietà i suoi soldati avevano finito uno ad uno i legionari appartenenti ai ceti più in vista, alle famiglie più potenti. Ed avevano pianto, eccome se avevano pianto, con i loro cuori spezzati e spauriti, proprio come lui adesso per Asdrubale, e anche loro non avevano avuto pietà del vinto, gli avevano mozzato la testa per offrirgli un macabro regalo.
“Padre! Quando ci hai insegnato l’odio verso Roma, verso la tirannide di chi ti vuol schiacciare perché sei sul suo cammino, sapevi che Asdrubale era il più debole e infatti lo hai forgiato con più tenacia, conoscevi le nostre qualità, solo un uomo poteva essere così folle e così forte da passare le Alpi, eppure hai fatto sì che questo amato fratello riuscisse dopo di me!” – urlava nella sua tenda il generale, a tal punto che il suo braccio destro si risolse ad entrare per capire.
Normalmente nessuno avrebbe osato disturbarlo, ma era necessario, i romani non avrebbero ceduto, anzi ora erano più sicuri dei loro mezzi. “Generale, le truppe ascoltano il vostro dolore, perdonatemi ma consiglio prudenza; sono ormai anni, tanti anni, che siamo in Italia, basta un nulla, uno scoramento e saremo battuti e chiusi in una trappola mortale. Capisco lo strazio del vostro cuore, e credetemi è anche il mio, ben conoscete la mia lunga militanza con i Barca”.
“Tranquillo Annone, “- rispose – “la mia mente è pronta ed il braccio sicuro, ben sai che i romani non hanno generali che possano competere con me. E questo lo sanno anche gli uomini che là fuori si interrogano”
Annone lo abbracciò con forza, a lui questo era consentito, e lo fece con l’orgoglio di essere al servizio di quella straordinaria famiglia, dalla Spagna alla campagna d’Italia, da Amilcare ad Annibale; poi uscì rapido a confortare le truppe.
Rimasto solo, o forse solo lo era sempre stato, Annibale raggiunse il braciere che ardeva nella sua tenda e si mise a fissare i giochi di luci ed ombre del fuoco. In mezzo vide il padre, quando chiese a loro fanciulli il supremo giuramento di combattere Roma sino alla morte: poco più che bambini, con gli occhi e le mani rivolte verso l’alto scandivano la formula dell’odio eterno e chiedevano il sostegno degli dei. Ma si può odiare in eterno? E quanto costa? Lo sguardo andò all’immagine della testa mozzata del fratello: padre quanto abbiamo pagato! Ed io non ho potuto far nulla, non potevo sorreggere chi era venuto per sollevarmi.
E l’astio aumentava, il livore consumava, e le faville rimandavano una dopo l’altra le immagini delle battaglie vinte, dei gladi lucenti, degli scudi spezzati, degli elmi fessi, della polvere dei cavalli … infine il suo esercito innanzi a Roma, quanto lo aveva sognato e lì giunto non seppe che fare… veramente aveva perso la grande occasione? Tradito l’alto giuramento prestato? No, quello mai, ne era sicuro, tuttavia da tempo il dubbio lo attanagliava: aveva esitato? Fratello mio, non avessi ricusato l’assedio, tu saresti ancora qui al mio fianco, forse la città sarebbe caduta.
E allora perché tornai indietro? Non volevo finisse, volevo continuare ad infliggere dolore al nemico ed ai suoi alleati, certo di essere invincibile: nessuno sapeva e sa manovrare le truppe in campo aperto come me… e allora soffrite o romani sino ad impazzire, privi dei vostri figli, con le città annerite dal mio fuoco, le campagne devastate, alla fame perché io ho il vostro grano.
Ma in fondo al cuore un’ombra tremenda ed accusatrice gli parlava: “Non hai preso Roma perché questo avrebbe significato obiettivo raggiunto, e allora la vita cosa sarebbe divenuta? Cosa avresti fatto dopo, grande generale? Avresti condotto la vita del notabile cartaginese che si occupa dei suoi affari e dei suoi commerci? Tu? L’eletto a grandi imprese? Avresti vissuto una vita vuota, senza più quella corroborante sensazione di rabbia, di forza, di violenza? No, Roma doveva vivere perché anche tu potessi continuare in una guerra eterna, sino alla fine dei tempi. Insomma, non c’è redenzione, generale, bisogna odiare sempre. Ricorda, non si sceglie chi amare ma chi odiare, ami chi puoi, ma chi odiare te lo scegli eccome. Lo culli da bambino questo senso gratificante, ti infervora tutto sino a farti tremare le mani, passare notti insonni immaginando Roma in fiamme, ma ha un prezzo e non puoi sfuggirgli. No, non è la vita, a quella semmai dà un senso che sarebbe ben arduo trovare, no, sono gli affetti, gli amici squartati, i fratelli decapitati, le voci strazianti dei morituri. E mentre ti spaccano il cuore alimentano quella grande forza che ha l’odio. Vai generale, i romani ti aspettano, uccidili piano piano.”
Il fuoco lentamente si stava spegnendo ed il dolce calore lasciava posto al freddo della notte, al buio del vuoto, ai denti ghiacciati del male e del rimorso, che dilaniavano tutto attorno a lui.
da Giovanni Ollino | Apr 18, 2024 | cronache, I racconti di Vittorio Nicoli
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Dopo la conclusione della piece teatrale “Una vita davanti”, ospitiamo ora per alcune settimane con grande piacere alcuni racconti brevi del caro amico Vittorio Nicoli, i quali saranno un interessante intermezzo, basato sulla rielaborazione della storia di alcuni importanti personaggi storici, prima della pubblicazione dei miei nuovi racconti a carattere distopico. Buona lettura!
INTRODUZIONE
Con l’Angelo della morte inizia una serie di racconti incentrati su personaggi storici che vedono la loro vita mossa o condizionata da una passione forte, da un sentimento, o da un ideale che ne ha delineato il corso. Il protagonista del primo racconto è quello meno “storicizzato”, ma ha una sua dimensione biblica che le arti figurative hanno a volte riprodotto. L’obiettivo è quello, spero non pretenzioso, di romanzare quelli che io definisco i demoni che muovono le vite di ogni comune mortale e che con i personaggi storici raggiungono le loro iperboli.
L’ANGELO DELLA MORTE
Oggi le ali pesano in modo insopportabile: queste appendici, che mi permettono di volare etereo, sembrano rivestite di un sottile strato di piombo lucido e mi inchiodano qui, appollaiato su questo scoglio dinanzi a questo mare plumbeo più del cielo. Eppure, fra tutti gli esseri del creato, dovrei essere quello più lieve, anzi solo una emissione di luce che si configura ad immagine umana per non spaventare proprio gli stessi uomini. Certo una luce che appare all’improvviso dal nulla, impossibile ad esser fissata o fermata, che comunica con lo stesso linguaggio, ma in forza enormemente più potente, spaurirebbe le piccole creature di Dio.
Allora ecco l’immagine dell’uomo-angelo, con queste ali imponenti, un misto fra uccello e uomo, bellissimo ed intangibile. Chi non desidererebbe essere un angelo? Oggi io. Sì, non resisto più in questa veste celestiale e demoniaca. Già perché non vi ho ancora detto chi sono: sono l’angelo della morte.
Avete compreso bene: eseguo la somma giustizia di Dio. Solo da Lui prendo ordini, non appartengo all’esercito celeste, gli arcangeli su me non hanno alcun potere. Penserete possa essere un grande privilegio il mio, rapporto unico con il Creatore, esecutore delle sentenze, nessuno mi può appellare. Ma guardate oltre alla mia veste magnifica, rossa come il sangue, ai boccoli dorati che rifulgono nel cielo nero, alla mia spada affilata che scintilla della mia stessa luce: oltre c’è la solitudine dell’unico, di un compito che nessuno realmente vorrebbe.
Il mio ruolo è eterno nel presente di Dio, il Suo disegno mi vuole ora e sempre al Suo servizio, l’angelo che nessuno vuol vedere. Pare impossibile vero? Tutti amano gli angeli, in specie quelli custodi, sempre hanno trovato rappresentazione nelle arti degli uomini questi esseri celestiali, bellissimi, inarrivabili. Ma per me tutto questo non conta: si può amare un angelo che porta la vendetta e la morte? Notate bene: io e la morte svolgiamo compiti diversi e distinti, e vi debbo svelare che mai ci incontriamo, non siamo mai nello stesso posto. L’arcigna figura con la falce non può stare al cospetto di un angelo di Dio malgrado l’esito dell’operato sia lo stesso: poniamo termine ad una o più vite, ma lei svolge il lavoro ordinario, quello che la sua natura le impone, il ciclo della vita che in qualche modo vede il suo termine; io porto la vendetta tremenda di Dio, quella che non ammette redenzione, la mia vista significa dannazione eterna.
LUCIFERO
Il primo ad avermi visto agli albori di tutto fu proprio uno come me, ma il più bello di tutti ed anche il più potente: colui che volle essere come Dio. Un folle che finì per essere dannato, trasformato nell’essere più abominevole mai esistito, perché la nostra bellezza è rispecchiarci in Dio, lontano da Lui diventiamo mostri. Mi vide – dicevo – per primo con la mia spada scintillante, adornato dalla mia veste scarlatta; ricordo bene il suo sguardo con la mia immagine riflessa, stupore e terrore, ma conscio che ogni fuga era ormai impossibile, la sentenza emessa dal Sommo tribunale inappellabile. Cadde, o meglio precipitò sulla terra con un enorme boato, disintegrandosi in piccole frazioni di male che presero a circolare ed ammorbare il creato, mai però avrebbero potuto in futuro minacciare veramente l’esistenza.
Capii allora quale fosse la mia sorte: il tratto che manca fra il bene ed il male, il grigio di chi vede il mondo sempre diviso in due. Tocca a me fronteggiare il terrore di chi mi incontra perché io lo respiro, lo assorbo, sento il dolore dei loro cuori, il fremere delle loro membra, la paralisi dei volti. Persino un essere superbo come Lucifero, capace di scatenare le tenebre della sua corda, ha mostrato sgomento: sapeva d’essere inerme innanzi alla giustizia che sconvolge la materia e ne cambia le leggi ed i moti. Le sue ali, simili a vele nere di navi colte da tempesta, e per questo motivo lise e rabberciate, si piegarono e riaprirono come frustate dalla furia dei miei gesti, dalla sua bocca uscirono parole di fuoco che si spensero all’istante, i suoi artigli ricurvi e velenosi si frantumarono sulla mia veste. Noli me tangere, – il detto dei latini aggrada alla verità del mio essere – non mi si può arrecare danno alcuno.
Come è Lucifero? Mi chiederete. Ebbene, per lui esiste un prima ed un dopo, direi come per tutti i mortali che ho avuto occasione di incontrare; prima del male bellissimo da impazzire, il pensiero quasi perfetto, la luce che porta la letizia fra le legioni di Dio. Dopo, solo il buio ed il freddo, la tristezza di un’esistenza senza scopo, ossia un non essere tormentato e dilaniato dall’odio verso tutto. Questo è il ritratto del primo nemico di Dio: nella storia è diventato ingannatore, violentatore, assassino, insomma un mostro assoluto, ma il suo sguardo per una volta, una sola, è stato sincero ed ha riservato a me questo trattamento. Mentre la mia spada infuocata lo percuoteva ho potuto vedere me stesso nei suoi occhi: tutta la mia eterna solitudine mi ha accolto, e il suo sguardo mi ha rivelato la pietà che per un infinitesimo di secondo ha provato verso il suo carnefice.
Eccomi su questo scoglio a guardare questo mare plumbeo attendendo il prossimo compito per poter ancora vedere il mio aspetto atroce e maestoso e chiedermi perché proprio io: Ti prego dammi una diversa soluzione, fammi rientrare nelle Tue schiere, non lasciarmi ancora errare come un povero derelitto.
DIALOGO CON LA MORTE
Mi è accaduto talvolta di dialogare con la morte per cercare di capire cosa provi lei nello svolgere il suo compito. Debbo purtroppo riconoscere che la morte non lavora da sola; i poveri esseri mortali non sanno che esistono molteplici morti e sempre molto affaccendate con tutto quello che di caduco appartiene a questo ed altri mondi: la loro non è una condizione eguale alla mia, la mia unicità ed irripetibilità loro non la condividono, anzi. Oserei quasi dire che il loro impegno è dozzinale ed in parte ripetitivo, non fosse drammatico per tutti quei piccoli esseri viventi. Gli uomini, che sono meno stupidi di quanto loro stessi pensino, avevano inventato tre figure femminili che tessevano le loro vite, proprio come fosse un onesto lavoro: sapessero di aver avuto ragione chissà come reagirebbero, come li farebbe sentire questa sistematicità della morte!
Ma torniamo al rapporto con la signora con la falce, romantica immagine umana per rendere concreta la non esistenza: non ha mai avuto modo di fare chiarezza su quello che prova nell’adempiere al suo compito, sembra non sentire alcun peso per le sue azioni.
“Stai tranquillo – mi disse – svolgi il tuo compito senza tormentarti, in fondo sei un essere fortunato e superiore, tu dialoghi con Dio! E vuoi da me, neanche mai interpellata, che ti offra chiarimenti ed appoggio, sei quasi meschino nei miei confronti.”
“Meschino? Io voglio solo capire cosa provi quando tormenti un essere umano, quando piano piano gli togli l’effluvio della vita, spegni la luce dei suoi occhi per il buio eterno…”
“Nulla, non provo nulla – affermò – agisco e basta, perché è giunta la mia ora e la sua. Deve fare posto, andare, portar via il suo bagaglio di gioie e dolori perché qualcun altro possa adire lo stesso percorso sino all’eternità. “
“Ma i loro sguardi – proseguii – qualcosa ti diranno, avrai un momento in cui li osservi, un minimo di curiosità per le loro reazioni …non posso credere che tu agisca senza un piccolo esame delle condizioni, del soggetto, di quanto accade.”
Non potevo confessarle che con me Dio non parla. Con me non parla proprio nessuno in modo spontaneo. E lo credo bene! Faccio paura! Dal mio scranno sulla scogliera vedo l’immagine del luogo o della persona, tutta la sua storia mi appartiene e so come e perché debbo agire. Da solo.
L’INCONTRO CON IL POETA
Erano i suoi ultimi giorni a Napoli; la città era scossa dall’epidemia, una delle tante che periodicamente la mia amica morte provocava per far spazio fra i mortali. Lui era febbricitante nel letto, un corpo contorto che tanto aveva lottato per esistere a fronte di una mente che lo aveva totalmente soggiogato. Mi aspettava. Ossia non poteva sapere della mia esistenza, ma il suo fine acume lo sospettava da sempre e vidi dai suoi occhi che non aveva alcuna paura.
“Sarà la fine della mia sofferenza la tua venuta o angelo! Giustamente la vendetta di Dio mi colpisce e allo stesso tempo mi nobilita: non la comune morte ma la tua spada saranno artefici del mio trapasso! Tanto nella mia vita ho cercato il senso ultimo di quello che mi circondava ed ora tu, erto davanti al mio capezzale, mi offri la soluzione. Quale sia la mia colpa non me ne avvedo, ma ora tu chiarirai…”
“Sei un grande poeta cui oggi nessuno riconosce meriti, ma io so che li avrai. Il mio compito, di cui ben ti sei avveduto, è punirti per quello che potevi e non hai fatto: ti sei ribellato alla natura che di Dio è espressione, hai invocato l’inutilità della vita dinanzi al destino avverso, hai sotterrato i talenti invece di investirli”.
“Allora, dimmi tu, essere etereo, in cosa mi sono ingannato: forse sulla caducità della vita o sulla totale indifferenza alle umane sorti? Lassù sta lo sterminator Vesuvio, per conto di chi agisce e distrugge quello che tanta fatica ha costruito? Hai dunque un almanacco da distribuire per il nuovo anno pieno di felicità? Quale dunque il tuo responso?”
“Spiacente caro poeta, la punizione è per la tua arroganza, per la supponenza della tua mente: agli albori ho veduto altri pensare d’essere capaci di capire il pensiero che sottende al creato. Poveri illusi! Dio li ha puniti.”
“Viene da pensare che Dio sia un poco suscettibile verso noi poveri mortali, certo se il primo a patire pena fu Lucifero – come io credo – siamo su un livello superiore, nulla di umano.”
In quel momento i suoi occhi ebbero una luce strana, un misto di tenerezza e tristezza, rivolti verso me: mi compativa o meglio aveva inteso la mia sofferenza e sopra ogni cosa la mia solitudine. Poteva un semplice essere umano avere tanta sensibilità? In fondo ero arrivato per dannarlo e lui mostrava la sua pietà.
Allora decisi di dialogare ancora con lui.
“Perché parli di Lucifero? Cosa puoi tu sapere di lui? “
“Pura supposizione dell’esistenza del Male, visto che tu qui mi significhi che il Bene supremo esiste, cosa cui io sino ad oggi non credevo o meglio non consideravo. Ma tralasciamo questi discorsi e parliamo di noi, angelo, di quanto siamo simili, di quanto i nostri doni ci rendano unici e soli… perché lo so, tu sei solo, unico e nero, quanto io sono deforme nel corpo e nello spirito. Quanto dolore accompagna la nostra esistenza, ma tu, tu sei infinitamente più disperato di me. Fra poco tu chiuderai la mia esperienza mortale, nessuno lo farà con te. Dimmi, quella notte in Egitto quando uccidesti tutti quegli infanti innocenti cosa hai provato? Cosa potevano aver mai fatto? E cosa ti ha detto Dio proprio quella notte del tempo terreste…”
Mi vide piangere a dirotto. Aveva riaperto una ferita. Casa per casa ero andato, ed uno ad uno li avevo uccisi ed in ogni gesto uno strazio infinito. Potevo veramente dargli una spiegazione? Ma lui sapeva tutto; l’uomo che aveva scritto l’Infinito non doveva chiedere, perché aveva visto Dio.
Lo lasciai nel suo letto a tribolazione finita, povero corpo cui ora non apparteneva più lo spirito e mi sovvenne un altro dialogo in un altro tempo – come dicono gli uomini – sempre con un poeta, esseri strani.
IL GENERALE
Lo trovai a notte fonda nella sua tenda, avvolto nel manto rosso senza la corazza leggera, che stava posata a terra, errante disperato, urlante agli dei che lo avevano abbandonato. La notizia gli era appena giunta sotto la forma di una testa grondante sangue: suo fratello, l’amato fratello, decapitato dagli odiati romani, maledetti, mille volte maledetti! Quando si avvide della mia ombra nera innanzi a lui pensò ad un messaggero degli dei, lui non poteva sapere, ma non ebbe paura alcuna. I suoi occhi di fuoco esprimevano tutta la certezza di essere nel giusto e di avere ben chiara la propria importanza; sembrava dirmi: “bada chiunque tu sia, io sono Annibale l’invincibile, il nemico giurato di Roma”.
“Soffrirai tanto, – gli dissi – la tua punizione sarà lenta e perniciosa: sconfitto, vagante e tradito sconterai la tua pena.”
Esplose in una risata sinistra. “Questo dolore che mi muove, proprio al centro del mio cuore, è e sarà eterno; non so chi tu sia e non mi interessa, obbedisco solo al mostro che ogni minuto, ora, giorno, mi divora inesauribile, certo non a te malgrado tu sia foriero di cattiva fortuna!”
“Bada – gli risposi – il mio potere è enorme rispetto al tuo di piccolo uomo! Ti porto la più alta delle punizioni perché tu hai deciso di impersonare l’odio: il male come dici tu, ti rode e provoca sofferenze infinite. La giustizia sarà di pari forza!”
“Vattene! Ho altro a cui pensare, debbo riorganizzare il mio esercito e la mia strategia, convocare i miei luogotenenti, quei vermi romani non aspettano, colpiscono veloci. Ma voglio solo farti una domanda: visto che conosci il futuro degli dei, quale sarebbe dunque la tanto atroce pena? “
“La solitudine degli amici, l’esilio dalla patria cui tutto hai dedicato, il tradimento di un amico che ti consegnerà ai tuoi odiati nemici… Ti basta? Tutto attorno sarà finito, l’odio porterà solo cenere…”
“Ed io terrò fede al giuramento prestato da bambino e mi ucciderò! – mi urlò in faccia – credi abbia paura della morte, Angelo?”
Confesso che mi sorprese, il demonio mi parlava nuovamente, il nostro primo scontro era stata la sua disintegrazione ed eccone qui una scheggia dentro all’involucro di un grande uomo della storia umana … So già che morirà l’uomo, non il male che sta in lui, eppure alle volte spero che quel male si estingua o che l’uomo lo sconfigga…alle volte riesce…
La fine di quel male sarebbe l’esaurirsi del mio compito e forse veramente potrei trovare la pace, nuovamente contemplare la bellezza di Dio, e deporre questa spada che tanto mi pesa da sempre avere con me, abbandonare questo scranno solitario e questa volta ambire all’eterno futuro di Dio.