“I racconti di Vittorio Nicoli”

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Si concludono con il seguente i racconti a carattere storico del caro amico Vittorio Nicoli, che ringrazio vivamente per la collaborazione al mio sito; dalla prossima settimana continueremo con una serie di miei nuovi racconti distopici. Grazie a tutti per l’attenzione!

IL CAMERATA

Bussano in modo insistente alla porta.  E’ notte fonda.

Si sentono battere gli stivali, il rumore risale le scale ed arriva alle camere dell’albergo. Intimano da fuori di aprire con voce forte, quasi urlando, i passi si bloccano, i tacchi colpiscono il pavimento. Da dentro nessuna reazione, nessuna risposta. La porta allora si spalanca, portando nella semioscurità la luce forte del corridoio.

Si distinguono solo le sagome nere che stanno per entrare: urlano comandi. Un uomo stranito si alza nudo dal letto: il suo corpo è imponente ma flaccido, bianco latte nel flash delle lampade; rotea gli occhi attorno, stupito, li strabuzza quando comprende chi gli sta innanzi.

Si copre rapido mentre con le braccia accenna ad una protesta: non ha tempo, uno degli uomini lo strattona mentre grida di vestirsi veloce. A letto un giovane terrorizzato piange. Si è coperto con le lenzuola, sa che per lui si mette molto male. Sono militari gli uomini appena sopraggiunti, o sembrano tali per il loro abbigliamento: stivali lucidi, camice brune con mostrine al colletto, una fascia rossa al braccio destro. Li comanda un tizio alto e magro, con un cappotto nero in pelle che pare arrivare ai piedi, ha due occhialini tondi ed uno sguardo sinistro.

Con un gesto sentenzia la sorte del ragazzo: un secondo soldato estrae una pistola, afferra un cuscino, glielo avvicina al volto e fa fuoco.

L’uomo grasso emette un urlo direttamente rivolto al responsabile dell’operazione: lui lo conosce bene e può farlo, o meglio, forse sino a ieri poteva, stanotte ne è meno certo. Gli dice che lui è Ernst Rohm, amico personale del Fuhrer, comandante delle S.A., uno degli uomini che ha fondato il partito.

Il magro che gli sta innanzi lo sdegna con una mimica facciale evidente, e nel contempo lo irride: è Heinrich Himmler, il sadico capo delle S.S.; gli spiega che deve vestirsi veloce e seguirli, perché è in arresto proprio per ordine del cancelliere.

Rohm fatica, si impiglia con i pantaloni e le bretelle, cerca nella semioscurità la sua camicia bruna. Una sola domanda gli frulla in testa: cosa sta accadendo e di cosa lo accusano? Proprio lui, l’unico che si permette di dare del tu ad Hitler, viene tratto in arresto come un volgare ladro, e per mano di uno degli uomini che detesta di più, uno dei suoi avversari politici. Himmler lo odia per le sue tendenze sessuali, per il suo fisico non proprio prestante, ma soprattutto per la sua influenza sulle forze paramilitari che obbediscono ai suoi ordini.

Scendono le scale dell’hotel, qualcuno è uscito dalle camere per vedere cosa sta accadendo: basta uno sguardo per capire che è meglio rientrare velocemente.

Con volto scuro Rohm è attorniato dalle S.S., il passo è rapido e scandito, fuori un’auto con il motore acceso li attende. Salgono Himmler ed un suo uomo, Rohm è nel mezzo; se questa fosse un’iniziativa personale del capo delle S.S., gliela farà pagare a carissimo prezzo ma se… non può essere che proprio il suo amico Hitler lo voglia in carcere.

L’auto si avvia nella notte di Monaco destinazione carcere militare.

Nel tragitto Rohm ha rinunciato a chiedere qualsiasi ragione, non vuol prestare il fianco allo scherno del suo nemico. Guarda fuori le vie nelle tenebre, mentre lo rincorrono i fantasmi degli uomini che lui ha perseguitato con gli stessi metodi. Sono gli spartachisti cui ha spaccato le teste, gli zingari che i suoi uomini hanno arrestato dopo averli malmenati, gli ebrei odiosi arraffatori, i disadattati e i minorati, gli avversari politici e la feccia umana. Li vede agli angoli delle strade, fuori dal cono dei pochi lampioni, ridono di lui. Se conoscesse il sommo poeta italiano potrebbe affermare di esser vittima della legge del contrappasso, ma è solo un crudele ometto calvo, anzi è ancor più riprovevole per la sua appartenenza ad un gruppo minoritario e perseguitato.

Alla fine, sono giunti al cancello fatidico; i quattro uomini scendono veloci: Rohm viene accompagnato in una cella singola ed è qui che chiede di poter vedere il Fuhrer, è quasi sicuro che lui sia all’oscuro di quanto avviene. Senza tutto il lavoro fatto da Rohm, non sarebbe mai giunto al potere: ha riorganizzato i gruppi militari quando erano allo sbando, è tornato in Germania dall’altra parte del mondo proprio su richiesta di Adolf, per fare tutto questo.

Himmler gli ride in faccia: non verrà né ora né mai – dice – inutile che minacci, non sei più nessuno, se non un volgare omosessuale.

Eccola lì, l’infamia! Maledetto Himmler e le sue S.S., depravati sanguinari.

Lo lasciano solo nella stanza, un letto ed uno sgabello, un pitale seminascosto, una lampadina sopra un vecchio tavolo.

Per ordine di Himmler gli è stata lasciata una pistola, in modo che svolga da solo con dignità l’ultimo passo, questo ha voluto il cancelliere. Rohm la osserva inquieto, quando attraverso il muro entra uno spartachista con la testa fessa da cui sgorga sangue. Gli pianta gli occhi negli occhi.

Rohm è atterrito ed incredulo, l’uomo lo tocca e gli sussurra: a presto!

Con questo pezzo termina il viaggio attraverso le vite di personaggi storici, alcuni noti, altri meno, mi auguro di aver divertito quanti hanno letto i miei pezzi e stimolato qualche curiosità.

Grazie

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         Il pistolero

Alzo il cane e premo il grilletto…alzo il cane e premo il grilletto… la pallottola sibila nell’aria roteando e raggiunge un bersaglio: penetra le carni, fracassa i vasi sanguigni, frammenta le ossa.

Il sangue sgorga, rosso rubino, in un fiotto e l’uomo grida, cade e si divincola dal nulla, o meglio dalla vita che fugge ed infatti adesso geme spegnendosi. Alzo il cane ancora e la canna lucida scintilla al sole ed uccide la luce negli occhi altrui.

Sul mio petto campeggia la stella, quella che mi conferisce il potere, l’autorità e la copertura per poter portare la somma giustizia attraverso la morte. Oggi in questo spiazzo desolato al confine con il Messico, ove il vento alza una fastidiosa polvere, io mi innalzo a giudice e carnefice, tribunale e boia e la colt eseguirà la sentenza già scritta. Il cuore è forte grondando lacrime per il mio povero fratello ucciso, il braccio sicuro e la mente fredda e lucida: sia chiaro, il bandito avrà la sua possibilità, il duello sarà leale; se sarà più veloce lui, la giustizia perderà.

Ecco il duello: tutto parte da uno scontro ormai famoso che resterà nei libri di storia; io sono già una leggenda per quello che facemmo quel giorno all’Ok Corral, io, i miei fratelli e Doc Holliday.

Tombstone vide l’azione dell’angelo di Dio nell’inferno di fuoco.

Cresciuta velocemente a seguito dell’arrivo della ferrovia e della febbre dell’oro, la città era caduta preda di ogni sorta di avventurieri, tagliagole e pistoleri, case da gioco e di perdizione, e la gente onesta faticava a sopravvivere, rischiando ogni giorno di cadere vittima, anche per futili motivi, delle azioni di questi malviventi. Noi avevamo deciso di riportare l’ordine e la tranquillità in difesa degli innocenti, cosa che in passato avevamo già fatto in altra zona d’America. Tramite un’ordinanza vietammo di portare armi da fuoco, imponemmo un coprifuoco serale ed il controllo su alcoolici e gioco: questo prima innervosì alcuni cowboys agitati, poi divenne scontro il giorno che presi a schiaffi il vecchio Clayton davanti a tutti come fosse uno sciocco. E lo era! Tornò con i suoi figli ed amici ad affrontarci per svilire la nostra autorità.

Gli costò caro, – come tutti sapete già – persero la vita in tre ed i superstiti dovettero fuggire come cani spaventati. Quel giorno le nostre stelle brillavano come non mai al sole dell’Arizona e cantavano assieme alle nostre pistole l’ode alla giustizia.

E il sangue dei vinti bagnava la terra.

Come sono finito in questo posto sperduto? Inseguendo gli assassini di mio fratello, candidato a sindaco della città e barbaramente ucciso con una fucilata alla schiena da parte dei Clayton, quelli sopravvissuti. Come sceriffo federale dovevo assicurarli alla mia giustizia … Alzo il cane e premo il grilletto… Li ho trovati uno ad uno e mai si sono arresi ad un giusto processo: ho sempre dovuto ucciderli, non mi hanno lasciato diversa scelta.

Ed oggi sono qui nel New Mexico dinanzi ad un muretto in mattoni, mezzo diroccato, con poche sterpaglie riarse vicino ad una fazenda dall’apparenza dimessa, ove alcuni mandriani stanno governando pochi capi di bestiame dall’aspetto non florido. Mi salutano con deferenza e paura, hanno visto la stella e le colt, hanno subito compreso che vicino a me cavalca la signora nera con la falce. Si mettono a chiamare “Senior, senior “, facendo sempre più chiasso, sinchè un uomo alto e magro s’affaccia all’uscio e subito il suo volto si fa torvo. Lui sa chi sono e perché sono lì, tocca la falda del capello in segno di saluto ed aggiusta il cinturone.

Alzo il cane e premo il grilletto… Mi fa un secondo cenno, capisco che vuol parlare, ma io ho la gola secca e poca voglia, non abbiamo nulla da dirci. Dal suo sguardo capisco che insiste, scendo e lego il cavallo poi mi approssimo.

“Earp, eccoci faccia a faccia ancora una volta, non molli il tuo osso vero? Saresti venuto a cercarmi all’inferno; congratulazioni, mi hai trovato! Ora siamo in due in questo luogo dimenticato da Dio. Ho visto morire i miei figli e i migliori amici, anzi sono morti per causa tua e per la mia boria. Potremmo fermarci, ma so già che tu non vorrai, invocando la legge e la stella che porti … La giustizia.  Ma quale giustizia, Earp? La vendetta, ecco il motivo per cui sei nel mio inferno, la tua sete di vendetta che tu fingi di chiamare giustizia.”

Lo fisso senza proferire parola poi gli sibilo “Vieni con me Clayton, sei in arresto!” Ma ha ragione: in cuor mio spero che resista, che io possa alzare il cane e premere il grilletto ancora una volta, illudendomi che quel gesto lenisca questo dolore immenso che provo da quando il mio amato fratello è morto ed infine io possa garantirgli…giustizia.

Il sole acceca in questo momento, Clayton tende la mano verso la pistola, io la afferro rapido, alzo il cane…

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Il dittatore

Oggi è il nove Termidoro.

Da poche ore mi hanno arrestato e rinchiuso nelle carceri della Rivoluzione, lo hanno fatto i nemici del popolo adducendo che io sia un tiranno. Mi sono fatto consegnare carta e penna, per lasciare in questo tristo momento il mio pensiero e la mia determinazione, cui mai sono venuto meno.

Sono un tiranno che ha appena salvato la Francia e la Rivoluzione stessa.

Se non avessi mobilitato e chiamato a raccolta lo spirito che ci ha animato in questi anni, i nostri nemici interni ed esterni ci avrebbero sopraffatto. Per far questo ho sicuramente accentrato i poteri e fatto scorrere il sangue, ma quando si lotta contro i subdoli nobili che cospirano contro i loro concittadini, i borghesi che approfittano per il loro tornaconto personale, i folli che rincorrono assurde idee di sovversione, tutto quello che ho fatto era necessario.

Mi hanno acclamato pochi mesi or sono come un eroe ed un salvatore, quasi fossi entrato in una nuova Gerusalemme. Dopo hanno capito che per il popolo e dal popolo io ritenevo di ricevere il potere e per quello sarei perito, come infatti è destino avvenga. Gli uomini a me più vicini mi fanno adesso compagnia e seguiranno la mia stessa sorte: hanno tentato invano di difendermi dai calunniatori e dagli avversari.

Mi chiedo ancora quale possa essere la mia colpa: le ragioni per cui mi hanno conferito il potere, quelle che ho sempre propugnato, le ho seguite ed eseguite in modo magistrale. Ho vinto le battaglie militari (non io, ma il grande generale Jourdan) ed ho salvato il popolo dagli affamatori, nulla ho ottenuto per me e nulla ho richiesto. Certo per fare questo ho imposto il Terrore – così la storia lo chiamerà – e fatto lavorare in modo impietoso il boia! Ma la Francia è salva e Saint Just si è impegnato a fondo perché resti una ed unita.

Mi rimproverano di aver permesso le delazioni e di aver impedito agli imputati di potersi difendere: ma quale difesa potevano invocare i ladri, gli affamatori, i traditori ed i cospiratori? Sulle picche le loro teste insanguinate!

Ho dovuto piegare Herbert e lasciare a Danton il suo amaro destino, il primo rivoluzionario anarchico, il secondo, peraltro mio amico, è stato tradito non da me, ma dai suoi stessi seguaci: ancora adesso sono convito che abbiano colpito lui per indebolirmi, perché lo salvassi, perdendoci entrambi. Qui lo so, la storia mi additerà come un vigliacco che dietro le persiane assiste all’esecuzione. Dimenticano, i miei delatori, che in quei momenti la Francia era in estremo pericolo.

Senza lo stato con le sue leggi non esiste libertà ed io non potevo per amicizia violarle, dimostrando anche un solo piccolo interesse personale. Quanto dolore mi è costato tutto questo, anche adesso pensare che uomini a me vicini, fedeli amici, per causa mia periranno.

Sono stato persino accusato di voler fondare una nuova religione, quella dell’essere supremo ed alcuni stolti hanno pensato che mi identificassi in lui: l’incorruttibile. Invero, senza un credo e senza ideali, l’uomo si perde e certo non potevo accettare che questi fossero incarnati da quel clero, che aveva tramato sempre con la corona e con la nobiltà.

Un’altra accusa è di non aver voluto proseguire la guerra contro le altre corone, in ispecie gli inglesi, – che io veramente odio – per esportare la rivoluzione e la democrazia: poveri stolti avete mai visto cambiare le società altrui al seguito delle baionette? Dovevo imporre una guerra infinita ad un paese già così provato?

Devo però constatare amaramente che l’uomo incorruttibile non può ambire ad una lunga fortuna, neppure se compie gesta eroiche: è stata una pia illusione quella di costruire leggi egalitarie; temo che al mio nome si assocerà solo il Terrore, come un periodo oscuro e grondante sangue.

Bene, sappiate posteri che non erano queste le mie intenzioni, ammetto che la giustizia e lo Stato sono costate molte vite, ma queste hanno seguito una sorte peraltro inevitabile.

Lo sarà anche la nostra domani sul patibolo, e stasera in questa buia prigione ho pienamente compreso che la giustizia è una parentesi nei governi dei popoli, ove più spesso trionfano la corruzione e l’avidità.

Di nulla però mi pento.

Viva la Francia, viva la Rivoluzione!

                                                                         Maximilien Robespierre

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La notte di San Bartolomeo

Vi prego, datemi riparo, anche solo per poche ore sino alla fine dell’epidemia! Quale epidemia, chiedete? La pazzia che sconvolge le menti in questa notte! Un matrimonio doveva aver luogo, con teste coronate, banchetti e sfarzo, musica e cibo, vino a volontà: del color cupo del vino scorre solo sangue. Busso a diverse porte dove so che abitano persone amiche, ma nessuno pare più esser vivo in questa grande città, o per contro nessuno mi vuole aiutare.

Sono un provinciale e questo viaggio mi è costato tempo, danaro e fatica: le strade, anche viaggiando in carrozza, sono sconnesse, piene di buche ed insicure. Ho impiegato 5 giorni nella polvere, dolorante, giacendo in letti pieni di pulci in bettole lungo la strada, dove servivano pasti improbabili. Chiederete perché sono venuto: ebbene, il matrimonio doveva sancire la fine degli scontri religiosi in terra di Francia, finalmente pace e rispetto fra le fedi, non più differenze e persecuzioni, non più odio fra fratelli.

La sorte mi ha per contro riservato una caccia all’uomo imbastita dai cattolici, soprattutto i soldati si sono accaniti per ordine della sovrana, la regina nera, Caterina l’italiana.

Ecco, sento i loro passi sul selciato parigino, le voci convulse e rauche, hanno le mani sull’elsa delle spade, alcuni le hanno sguainate; mi rifugio in un angolo buio e vedo una donna con un bambino di pochi anni che attraversano la via, alla luce delle fiaccole appese. Faccio un cenno, mettetevi al riparo, poi un timore mi attraversa la mente e mi raggela: e se fossero cattolici, miei nemici? Se mi tradissero? Questione di un secondo, incrocio lo sguardo della donna e capisco tutto, ma ormai è tardi.

I soldati le sono addosso, ghermiscono il bimbo e lo decapitano, poi rinuncio a guardare, sento soltanto le urla atroci che pian piano si soffocano. “Era questo che volevi, regina? Questa mattanza di uomini, donne e persino inermi bambini? Temevi così tanto gli ugonotti? Ci odiavi veramente così tanto?”

Caterina, nel palazzo reale del Louvre, è affacciata alla finestra e guarda fuori senza vedere nulla; i suoi pensieri corrono a quell’ordine dato giorni prima nella notte di San Bartolomeo ai suoi soldati: uccidete tutti gli ugonotti al seguito del Delfino, ormai è necessario. Lì ha visto il palazzo reale trasformarsi in una prigione: gli alabardieri svizzeri hanno cercato stanza per stanza, catturato i notabili protestanti, li hanno radunati nel cortile, quindi barbaramente trucidati. Ci riflette: poteva decidere diversamente? Lo ha fatto incredibilmente per evitare l’ennesima guerra di religione, sono state troppe sinora ed hanno destabilizzato ed ammorbato il regno; niente però faceva presagire la piega che avrebbero preso gli eventi: una carneficina per le vie di Parigi e di altre città.

Avrebbe dovuto valutare quanto accaduto proprio sotto i suoi occhi! A casa sua! E’ evidente che l’odio covava sotto la cenere, è bastato un nulla e non ci sono stati più freni. Confidava in una operazione rapida e risolutiva, ha invece liberato un mostro inarrestabile.

Nei giorni precedenti, un notabile protestante al seguito del re di Navarra, convenuto a Parigi per le nozze, era stato ferito e Caterina aveva temuto che il fattaccio riaprisse le ferite e gli scontri ancora vivi negli occhi di tutti. Aveva fatto sì che suo figlio, il re, desse ordine di uccidere il malcapitato in modo che tutto finisse il più in fretta possibile, senza aver ben compreso quanto odio scorresse nel suo paese.

La ragion di Stato l’ha mossa ad un passo molto azzardato, ma il regno non poteva sopportare ulteriori tensioni e lei sperava di averle risolte. Lo sa che, in segreto nelle stanze, la nobiltà la addita come “l’italiana” machiavellica ed avvelenatrice, la sua persona non piace, la temono e le tramano contro. Peraltro, sa anche di dover difendere la sua dinastia, in special modo i suoi figli amatissimi, il re e gli eredi al trono. Quanto è difficile vivere e governare in terra straniera! E voler il bene della famiglia che è il bene della nazione!

Un servo bussa alla porta della sovrana, annuncia che finalmente Parigi pare aver ritrovato la pace, ma con migliaia di cadaveri nelle strade. Caterina è sconvolta: il costo del suo gesto è stato altissimo, nessuno lo crederebbe, ma il suo cuore piange, sente e teme di essere dannata.

Mentre si ritira verso la cappella di famiglia, passa innanzi ad uno dei tanti specchi e rivede una donna sola, spaurita, appesantita nell’aspetto e non si riconosce. “Quanto sono cambiata dalla mia Fiorenza! Giunsi giovane e bella, invidiata per la posizione, salda per la potenza di una famiglia fiorentina capace di decidere la regina di Francia. Eccomi oggi, stanca di tutto questo sangue che non volevo fosse sparso, francesi che hanno ucciso altri francesi; Dio mi è testimone! Non volevo!”

Apre la porta della piccola chiesa nella dimora reale, si genuflette innanzi al Cristo, che alla luce delle fiaccole le appare ancor più sofferente, la suggestione la sconvolge e le pare che grondino lacrime di sangue dalla Croce. E’ allora che, battendosi il petto, giura a Dio ed a se stessa che d’ora innanzi attraverserà il regno in ogni dove, raggiungendo i luoghi più sperduti per poter espiare e portare, per quanto sia nelle sue forze,  nuovamente la pace fra gli uomini.

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  Il santo

E’ notte ad Anagni nei palazzi papali. Bonifacio dorme sonni agitati: è anziano e stanco, la sua fama ha raggiunto il mondo conosciuto, egli guida il regno di Dio sulla terra, è il messaggero dei Cieli, mette in ombra gli imperatori.

Perché, dunque è così agitato? E’ un uomo furbo e di fine intelligenza, non ha paragoni fra i nobili e i cardinali, il suo potere è saldo, ha spie e orecchie ovunque. Ma ha paura.

Nel comodo giaciglio, di cui quasi nessun mortale può godere, Bonifacio si contorce nel sonno, si sveglia sudato ed ansante, il cuore corre all’impazzata e sente una voce che gli è ben nota. Ha un sussulto.

“Va via! Torna da dove sei venuto, tu, l’autore della gran rinuncia!”

Parla con un’ombra il Papa, si rivolge al buio che avvolge il resto della sua stanza fuori dal cono di luce delle fiaccole. La sua voce è tremula, tradisce il timore dell’uomo che sa, nel profondo del suo cuore, che il fantasma è venuto per lui, e nulla veramente può fare per scacciarlo, quindi si pone in timoroso ascolto.

“Eccomi, Bonifazio! Vengo a te che ancora non hai compreso cosa devi fare! Eppure, sei uomo d’ingegno ben superiore al mio, esperto di dottrina come nessuno, che ti manchi la Fede, o Bonifazio?”

“Va via ombra maligna, cosa sei venuta a farmi espiare?”

“Nulla per me, tutto per il volere di Dio! Poco io chiedevo e molto di te in passato mi fidai, e tu mi tradisti! Dal mio eremo fui chiamato a Roma al trono di Pietro, da cardinali incapaci di nominare un nuovo Papa e sotto la pressione dei fedeli arrabbiati. Ero sgomento e spaurito, mi misi nelle tue sagge mani per poter fuggire e tornare alla mia Maiella, dove fra i rigori dell’inverno penando con i confratelli, pregando e lavorando duro, scalzo e spoglio, timorato di Dio, trovavo me stesso. Non mi importavano il potere, le ricchezze, i lauti banchetti, le vesti di seta: io ero povero ancor più dei poveri, mite fra i derelitti, bastone degli storpi, occhio dei ciechi, ed ero felice perché ogni giorno il buon Pastore mi parlava ed io ero seduto alla Sua destra, o così il mio cuore sentiva. Tutto ti avevo lasciato ed era giusto, perché tu dovevi adire a quel soglio, eri il migliore ma… Ecco, mi sono ingannato: non ho distinto la brama nei tuoi occhi, l’arroganza della tua intelligenza, ma soprattutto – e questo è il mio errore più grave – la tua mancanza di Fede. Appena lasciato lo scranno fuggii a Sulmona, convinsi i tuoi emissari a lasciare un povero vecchio frate alla sua celletta, ma non potei nulla contro il tuo torvo e caparbio volere.”

“Ho capito, frate! Ti vuoi vendicare della segregazione che ti imposi al castello, nella cella spoglia, con un giaciglio sulla dura terra a viver di stenti: mi serbi rancore uomo santo!”

La figura ieratica di Celestino rivolge uno sguardo compassionevole al Papa: proprio non comprende perché i suoi occhi sono velati ancora dai fasti delle corti, dagli ori e dalle gemme di cui nulla resterà.

“Un grande onore ed un grande regalo tu mi facesti o Bonifazio! Senza suppliche tu mi concedesti la vita ch’io sempre avevo bramato, solo mi privasti della gioia di veder i fratelli ed i poverelli, ma il mio cuore e la mia preghiera ogni notte li raggiunse.  No, non vengo alla ricerca di una vendetta per la morte atroce che mi riservasti, vengo per … salvarti, hai ancora tempo per redimerti!”

L’ombra svanisce. Bonifacio ora è assolutamente sveglio, stringe fra le mani un rosario e con un dito accarezza insistentemente il Crocifisso: sente le gocce di sudore scendere dal collo verso la schiena. E’ stato tutto un sogno, anzi un incubo. Lui è nella nobile dimora della sua famiglia, al sicuro. Un sorriso beffardo si dipinge sul suo volto. Si alza con un po’ di fatica, i piedi sono gonfi, il fiato è un po’ corto, uno specchio rimanda il suo volto austero e rubicondo, arriva alla finestra e la apre per respirare meglio. Qualcosa di amaro però è rimasto dal sonno.

“Perché a me Dio non ha mai parlato? Invece a quella scatola d’ossa di frate, sempre…Ovunque andasse, anche dopo il gran rifiuto, la gente lo riconosceva e lo osannava come un Santo. Non sanno che senza di me non ci sarebbe più stata la Chiesa, quello sciocco l’avrebbe ridotta in cenere, lui e la sua onestà: mangiato, ecco, se lo sarebbero mangiato! Lo avevano convinto a nominare come cardinali uomini fedeli all’imperatore, piano piano stavano emarginando la Chiesa con il suo potere sul mondo e lui sentiva alla notte le voci! Pretendeva che i cardinali, tutti provenienti da famiglie potenti, dormissero, mangiassero e vivessero come eremiti! Io ho ricostruito la forza di Roma, l’Ecclesia unica erede di quel che fu l’impero più potente del mondo; io sono il potere oltre i re, lo dovranno riconoscere!”

Bonifacio da tempo combatte due guerre: una interna, con le famiglie romane che gli sono ostili perché ambiscono a quel suo scranno, ed una esterna nella lotta per le investiture, onde far riconoscere che ogni testa coronata deve il suo scettro a Dio e quindi in fondo al Suo primo ed umile(!) servo: lui.

Ha tramato per la sua elezione in conclave, ha spaventato a morte Celestino per indurlo alla rinuncia, addirittura lo ha aiutato con il diritto canonico al fine di farlo spogliare delle sacre vesti, e, non contento, lo ha fatto uccidere, nel timore che potesse in qualche modo sminuire la sua figura.

Si sta facendo giorno e dalla finestra aperta sente rumore di passi e di armigeri; è incredulo: qualcuno sta violando la dimora sacra del pontefice, nessuno li ostacola, dove sono le guardie?

E’ ancor più agitato mentre corre alla porta e vede dei loschi figuri salire rapidamente le scale con gran frastuono.

Ecco, sente ancora quella flebile voce dirgli: “Sei ancora in tempo, lascia il potere, torna a Dio ed Egli ti parlerà”.

La sua cattività durerà solo tre giorni ed uno schiaffo.

 Sei già costì ritto, Bonifazio?

 Di parecchi anni mi mentì lo scritto.

La pulzella

Eccomi a sostenere il capo di quest’uomo cui è stato squarciato il petto, quest’uomo che implora aiuto, che soffre sbranato dalla morte incipiente. Implora e piange. Lo sorreggo e lo consolo, gli sussurro preghiere alle orecchie mentre calde lacrime gli rigano il volto.

Ha paura: sa che nulla potrà salvarlo, nessun cerusico potrà sanare le sue carni da cui sgorga il sangue a fiotti. Ho cercato di fermarlo con bende strette mentre lui gemeva ed urlava nella sua lingua che io non capisco. Sì, è un mio nemico, anzi si può dire ch’egli muoia a causa mia.

Eppure, tanto sto penando per questa sua sorte: mi sono chinata vedendolo riverso nel fango, la mia bianca armatura scintillante in questo sole timido dell’occaso, lo ha stranito; temeva volessi completare l’opera del ferro assassino, ma i suoi occhi erano…come non ne avevo mai veduti.

Mentre la battaglia lontana perdeva il suo alto fragore, io, invece d’essere con le mie truppe a cogliere il trionfo della vittoria, mi chinavo in questo campo, tolto l’elmo, deposta la corazza e lo scudo, sconvolta da tanto dolore di un uomo che muore.

Con la sua testa in grembo, nuova madre e vecchia madre, gli carezzavo i capelli neri, asciugavo una lacrima, tergevo il sudore. E lui non smetteva d’implorare, di cercare la sua fattrice, di pregare il suo Dio che è anche il mio.

Strano, abbiamo un solo Dio ma siamo diversi, crediamo in modo diverso e siamo nemici. Il mio Dio mi ha chiamata un giorno perché salvassi la Francia e le dessi un re: perché non finisse in mano inglese. Creai un’armata per liberare il sacro suolo come mi era stato ordinato. Scelsi la purezza e la castità, ma ottenni anche la morte. La vidi altera e nera negli occhi di quest’uomo che ho sul grembo e ne fui atterrita.

Pregai quindi per lui e per me: un voto troppo alto mi fu richiesto, in fondo son solo una ragazza; un costo troppo alto la sorte ha reclamato per questo giovane soldato: lasciare il suo villaggio, la sua casa e l’adorata madre. Invoco la Madre di tutti noi che fughi le nostre paure, che allontani da me questo calice portatore di tanta sofferenza.

Il mio cuore è sconvolto dalla devastazione che mi circonda e di cui sono responsabile: perché io e perché così? Partii dalla piccola casa natia, i miei genitori inconsapevoli del mio futuro destino, una famiglia di fede, devota a Dio. Partii perché le “voci” insistevano affinché salvassi la mia patria, liberandola dagli invasori e dai traditori. Non sapevo come avrei fatto, ma loro mi rassicuravano che nei Cieli il disegno era pronto ed io ero il mezzo.

Il mio paese stava per capitolare, gli inglesi avrebbero avuto tutto: serviva un condottiero dal cuore limpido, fedele al futuro re e assolutamente devoto. Un condottiero donna! Quanta ilarità scatenai nei nobili, anche il re mi teneva in poco conto. Il popolo no: mi amò da subito per la mia bianca armatura immacolata, per il mio amore sconfinato, per il mio alto senso di giustizia. E il popolo fu il mio sostegno, divenne la mia forza, mi diede il coraggio di lanciarmi in battaglia impugnando il mio vessillo di guerra.

Il soldato inglese emise un grido mentre il sole stava declinando oltre le colline, ed il freddo si impossessò di uomini e cose, del sangue e degli scudi, degli elmi fessi e dei corpi squarciati. La pulzella fu attraversata da un brivido e smise per un momento di pregare; sentiva la morte vicina, appresso a loro, giunta a reclamare il suo tributo.

Lei poteva vederla, così come anche il soldato inglese sul suo grembo, e questo era il motivo della sua agitazione: muoveva le braccia stanche a scacciare il nero incubo, la pulzella invece non era per nulla intimorita, la sua armatura risplendeva come un sole.

“Sono venuta a reclamare quest’uomo! E tante altre vite che oggi ed in futuro mi assegnerai” disse la morte. La pulzella alzò lo sguardo lentamente, aveva due occhi di fuoco, avrebbe intimorito chiunque. Non la morte.

“Dimmi, quale tributo vuoi da me? Perché tanta sofferenza?”

“Sei tu l’eletta, tu decidesti un giorno di primavera di avviare la grande redenzione, io colgo solo i frutti…Tanto sangue ancora scorrerà per mano della tua armata, dovevi sapere che su questa terra non ci sono vittorie che non comportino drammi umani”.

Il morituro sentendo la pulzella parlare con la plumbea figura aumentò per quanto poco gli riuscisse, il suo dimenarsi, riprese a strette labbra a pregare, con occhi sbarrati.

La morte alzò la falce. La guerriera le fermò il braccio: “Lasciami ancora qualche ora ch’io possa espiare, assistendo questo povero ragazzo, una minuscola parte della mia colpa.”

Le lacrime le rigavano il volto giovane e stanco, la morte faceva ombra sulla sua figura. ”Non preoccuparti, non ho fretta, capisco quanto tutto questo ti sconvolga. Voglio farti una rivelazione, anche se comprendo come tu ormai sia pronta a quello che ti attende. Vincerai, pulzella, la tua guerra contro gli inglesi, li caccerai dal sacro suolo della Francia, ma tutto questo a costo della tua stessa vita! Subirai un processo per eresia e chi oggi ti attornia ti abbandonerà ad un tristo destino.”

La ragazza sorrise finalmente, quasi che quella rivelazione l’avesse liberata da un peso: davvero pagare per tutte le sofferenze inferte era sin poco. Uccisioni di cristiani per mano di altri cristiani! Nessuna gloria e nessuna fortuna nella notte nera che ci circonda.

In quel momento la morte le fece un cenno cui neppure un’eletta poteva opporre rifiuto: il momento per il soldato inglese era giunto, la notte quasi passata.

Giovanna, con gli occhi pieni di lacrime, si rialzò da terra recuperando le armi e, mesta, preso il cavallo per le redini, si avviò verso il suo accampamento.

Nel cuore e nel cervello una domanda la sconvolgeva: se Dio permetteva tutto questo, era perché il mondo aveva smarrito Dio?

“I racconti di Vittorio Nicoli”

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Le insegne

Felicior Augusto melior Traiano

Sono ormai anni che è diventato imperatore, da quando il saggio Nerva lo ha adottato, costretto dalla casta militare ormai politicamente importantissima nel governo di Roma, e lui lo ha poi sostituito alla sua morte. Da uomo di armi ha dovuto occuparsi in prima persona della sicurezza dei confini dell’impero, ottenendo peraltro importanti successi sul campo contro Decebalo, re della Dacia, e ha fatto erigere ad imperitura memoria una colonna marmorea, che ricordi l’epopea dell’impresa.

Dovrebbe essere orgoglioso, felice e grato agli dei che gli hanno fatto dono di coraggio e saggezza, fortuna ed astuzia. Ma non gli basta: è inquieto oggi, il giorno dopo il trionfo che gli è stato tributato, rinchiuso nel suo palazzo come una belva in gabbia. Qualcosa lo tormenta da anni, da ragazzo nella natia Spagna come in Germania giovane governatore, mentre si prodigava per raggiungere la soglia nella scala sociale che riteneva gli spettasse di diritto. Gli è riuscito tutto, anzi è arrivato oltre al gradino massimo, appena sotto gli dei eppure…

Uno schiavo lo avvicina, è Licinius, il vecchio servitore della sua famiglia, l’uomo fidato che lo ha accompagnato sin da ragazzo, colui che conosce l’animo del padrone con il solo sguardo.

“Cosa avete Marcus Ulpius? Vedo ombre nei vostri occhi eppure ieri Roma ed il mondo intero vi hanno reso tributo”,  il vecchio conosce già il tormento e vorrebbe estirparlo dal cuore dell’amato padrone, che ha visto bimbo nella Spagna felice, ma non conosce il rimedio contro il veleno che egli chissà come e quando ha ingerito.

“Lo sai Licinius, è sempre lo stesso: anche stanotte ho sognato le insegne…”

“Sono passati 150 anni, Marcus, e le insegne sono tornate a Roma con il divino Augusto, è un fatto acclarato”

“Per nulla, Licinius, per nulla. Ne hanno restituito solo alcune: quei morti non riavranno mai pace, Roma non riavrà mai il suo onore sino a che tutte non saranno qui nella loro casa e io sento il dovere di andare a riprenderle, ogni giorno in modo più pressante.”

Il pover’uomo non sa come convincere e fermare il padrone, oggi l’uomo più potente al mondo, giudice unico di vita e morte, arbitro del fato di tutti, ma non del suo. E gli ritorna alla memoria il tempo lontano quando, accompagnando il ragazzo in una visita alla città di Cadice, questi aveva voluto conferire con una maga numida la cui fama aveva varcato i confini della stessa Spagna. L’aveva vissuta come uno scherzo, quando l’età giovane fa pensare ad un futuro senza tempo, e aveva riso alla profezia che quella, invero serissima, gli aveva svelato.

“Imperator sarà il tuo titolo, vedrai la terra fra i due fiumi sino al loro sbocco, riavrai gli agognati vessilli in cambio della tua stessa vita.”

“Della vita”,  pensa lo schiavo,  e sa che nulla v’è di più prezioso, sa che il suo amato padrone inseguirà quel folle destino, e non sa come proteggerlo: il giuramento fatto al padre di Marcus il giorno della nascita verrà tradito. Continua a chiedersi perché questo sogno delle insegne ossessioni Marcus sin da bambino. Lo ricorda quando adolescente la notte si rigirava nel giaciglio e pronunciava frasi sconnesse alternate al suo nome, Licinius!

Povero vecchio non sa che non era lui chiamato nel sogno, ma l’uomo che aveva, a causa della sua ingordigia, perso un intero esercito in terra partica: Marco Licinio Crasso; e che il caldo, la sete e la sabbia che tormentavano il povero ragazzo nel sonno erano quelle di Carre.   In quella nefasta battaglia gli dei avevano volto le spalle ai romani, rei di aver cercato solo oro e bottino, incuranti della forza e della furbizia del nemico. Là vennero perse le insegne in una vergognosa fuga, cadendo nel tranello di vili consiglieri voltagabbana, troppo sicuri dei propri mezzi e tronfi del proprio coraggio abbandonata la giusta sapienza.

Babilonia: finalmente una notte serena, il divo Traiano gode la pace dell’anima, il re dei Parti sconfitto ha riconsegnato i vessilli che tanto lo hanno tormentato. Il buon Licinio è morto alcuni anni orsono proprio alla vigilia della campagna militare, nessuno veglia più il ragazzo.

Nel buio della notte e nel silenzio della grande sala che vide i re Babilonesi ed Assiri, una figura ieratica avanza verso il giaciglio dell’imperatore e più volte lo chiama per nome. Traiano si sveglia e rivolge lo sguardo sorpreso ma non spaventato verso la voce: “Chi sei? Come conosci il mio nome?”  Ha eluso la guardia e questo basta per fargli impugnare il gladio.

“Non temere Marcus! Finalmente posso vederti. Ti ho chiamato da quando eri un bambino, sapevo che saresti venuto, che le insegne ti avrebbero mosso. So che solo tu potrai portare a termine il mio sogno, varcare i confini persiani verso il misterioso Oriente.”

Traiano comprende che la figura augusta che lo fronteggia altri non è che il grande Alessandro, l’invitto generale macedone. Un brivido gli sale dal cuore al capo: la sua grande sofferenza era dunque intrecciata al suo destino e al contempo a quello del suo unico predecessore, l’unico abile a sciogliere il nodo di Gordio, che gli aveva aperto la conquista del mondo.

“Veramente posso ambire al sogno alessandrino? Non sono forse troppo vecchio per tutto questo?”  Mentre si domanda queste cose, la bionda figura si dissolve nel nulla, lasciando all’imperatore un gusto acre in bocca, mentre la sua mente inizia a pianificare la nuova missione.

“Babilonia strega chiunque!“ aveva detto Licinius in punto di morte…