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Il santo
E’ notte ad Anagni nei palazzi papali. Bonifacio dorme sonni agitati: è anziano e stanco, la sua fama ha raggiunto il mondo conosciuto, egli guida il regno di Dio sulla terra, è il messaggero dei Cieli, mette in ombra gli imperatori.
Perché, dunque è così agitato? E’ un uomo furbo e di fine intelligenza, non ha paragoni fra i nobili e i cardinali, il suo potere è saldo, ha spie e orecchie ovunque. Ma ha paura.
Nel comodo giaciglio, di cui quasi nessun mortale può godere, Bonifacio si contorce nel sonno, si sveglia sudato ed ansante, il cuore corre all’impazzata e sente una voce che gli è ben nota. Ha un sussulto.
“Va via! Torna da dove sei venuto, tu, l’autore della gran rinuncia!”
Parla con un’ombra il Papa, si rivolge al buio che avvolge il resto della sua stanza fuori dal cono di luce delle fiaccole. La sua voce è tremula, tradisce il timore dell’uomo che sa, nel profondo del suo cuore, che il fantasma è venuto per lui, e nulla veramente può fare per scacciarlo, quindi si pone in timoroso ascolto.
“Eccomi, Bonifazio! Vengo a te che ancora non hai compreso cosa devi fare! Eppure, sei uomo d’ingegno ben superiore al mio, esperto di dottrina come nessuno, che ti manchi la Fede, o Bonifazio?”
“Va via ombra maligna, cosa sei venuta a farmi espiare?”
“Nulla per me, tutto per il volere di Dio! Poco io chiedevo e molto di te in passato mi fidai, e tu mi tradisti! Dal mio eremo fui chiamato a Roma al trono di Pietro, da cardinali incapaci di nominare un nuovo Papa e sotto la pressione dei fedeli arrabbiati. Ero sgomento e spaurito, mi misi nelle tue sagge mani per poter fuggire e tornare alla mia Maiella, dove fra i rigori dell’inverno penando con i confratelli, pregando e lavorando duro, scalzo e spoglio, timorato di Dio, trovavo me stesso. Non mi importavano il potere, le ricchezze, i lauti banchetti, le vesti di seta: io ero povero ancor più dei poveri, mite fra i derelitti, bastone degli storpi, occhio dei ciechi, ed ero felice perché ogni giorno il buon Pastore mi parlava ed io ero seduto alla Sua destra, o così il mio cuore sentiva. Tutto ti avevo lasciato ed era giusto, perché tu dovevi adire a quel soglio, eri il migliore ma… Ecco, mi sono ingannato: non ho distinto la brama nei tuoi occhi, l’arroganza della tua intelligenza, ma soprattutto – e questo è il mio errore più grave – la tua mancanza di Fede. Appena lasciato lo scranno fuggii a Sulmona, convinsi i tuoi emissari a lasciare un povero vecchio frate alla sua celletta, ma non potei nulla contro il tuo torvo e caparbio volere.”
“Ho capito, frate! Ti vuoi vendicare della segregazione che ti imposi al castello, nella cella spoglia, con un giaciglio sulla dura terra a viver di stenti: mi serbi rancore uomo santo!”
La figura ieratica di Celestino rivolge uno sguardo compassionevole al Papa: proprio non comprende perché i suoi occhi sono velati ancora dai fasti delle corti, dagli ori e dalle gemme di cui nulla resterà.
“Un grande onore ed un grande regalo tu mi facesti o Bonifazio! Senza suppliche tu mi concedesti la vita ch’io sempre avevo bramato, solo mi privasti della gioia di veder i fratelli ed i poverelli, ma il mio cuore e la mia preghiera ogni notte li raggiunse. No, non vengo alla ricerca di una vendetta per la morte atroce che mi riservasti, vengo per … salvarti, hai ancora tempo per redimerti!”
L’ombra svanisce. Bonifacio ora è assolutamente sveglio, stringe fra le mani un rosario e con un dito accarezza insistentemente il Crocifisso: sente le gocce di sudore scendere dal collo verso la schiena. E’ stato tutto un sogno, anzi un incubo. Lui è nella nobile dimora della sua famiglia, al sicuro. Un sorriso beffardo si dipinge sul suo volto. Si alza con un po’ di fatica, i piedi sono gonfi, il fiato è un po’ corto, uno specchio rimanda il suo volto austero e rubicondo, arriva alla finestra e la apre per respirare meglio. Qualcosa di amaro però è rimasto dal sonno.
“Perché a me Dio non ha mai parlato? Invece a quella scatola d’ossa di frate, sempre…Ovunque andasse, anche dopo il gran rifiuto, la gente lo riconosceva e lo osannava come un Santo. Non sanno che senza di me non ci sarebbe più stata la Chiesa, quello sciocco l’avrebbe ridotta in cenere, lui e la sua onestà: mangiato, ecco, se lo sarebbero mangiato! Lo avevano convinto a nominare come cardinali uomini fedeli all’imperatore, piano piano stavano emarginando la Chiesa con il suo potere sul mondo e lui sentiva alla notte le voci! Pretendeva che i cardinali, tutti provenienti da famiglie potenti, dormissero, mangiassero e vivessero come eremiti! Io ho ricostruito la forza di Roma, l’Ecclesia unica erede di quel che fu l’impero più potente del mondo; io sono il potere oltre i re, lo dovranno riconoscere!”
Bonifacio da tempo combatte due guerre: una interna, con le famiglie romane che gli sono ostili perché ambiscono a quel suo scranno, ed una esterna nella lotta per le investiture, onde far riconoscere che ogni testa coronata deve il suo scettro a Dio e quindi in fondo al Suo primo ed umile(!) servo: lui.
Ha tramato per la sua elezione in conclave, ha spaventato a morte Celestino per indurlo alla rinuncia, addirittura lo ha aiutato con il diritto canonico al fine di farlo spogliare delle sacre vesti, e, non contento, lo ha fatto uccidere, nel timore che potesse in qualche modo sminuire la sua figura.
Si sta facendo giorno e dalla finestra aperta sente rumore di passi e di armigeri; è incredulo: qualcuno sta violando la dimora sacra del pontefice, nessuno li ostacola, dove sono le guardie?
E’ ancor più agitato mentre corre alla porta e vede dei loschi figuri salire rapidamente le scale con gran frastuono.
Ecco, sente ancora quella flebile voce dirgli: “Sei ancora in tempo, lascia il potere, torna a Dio ed Egli ti parlerà”.
La sua cattività durerà solo tre giorni ed uno schiaffo.
Sei già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.
La pulzella
Eccomi a sostenere il capo di quest’uomo cui è stato squarciato il petto, quest’uomo che implora aiuto, che soffre sbranato dalla morte incipiente. Implora e piange. Lo sorreggo e lo consolo, gli sussurro preghiere alle orecchie mentre calde lacrime gli rigano il volto.
Ha paura: sa che nulla potrà salvarlo, nessun cerusico potrà sanare le sue carni da cui sgorga il sangue a fiotti. Ho cercato di fermarlo con bende strette mentre lui gemeva ed urlava nella sua lingua che io non capisco. Sì, è un mio nemico, anzi si può dire ch’egli muoia a causa mia.
Eppure, tanto sto penando per questa sua sorte: mi sono chinata vedendolo riverso nel fango, la mia bianca armatura scintillante in questo sole timido dell’occaso, lo ha stranito; temeva volessi completare l’opera del ferro assassino, ma i suoi occhi erano…come non ne avevo mai veduti.
Mentre la battaglia lontana perdeva il suo alto fragore, io, invece d’essere con le mie truppe a cogliere il trionfo della vittoria, mi chinavo in questo campo, tolto l’elmo, deposta la corazza e lo scudo, sconvolta da tanto dolore di un uomo che muore.
Con la sua testa in grembo, nuova madre e vecchia madre, gli carezzavo i capelli neri, asciugavo una lacrima, tergevo il sudore. E lui non smetteva d’implorare, di cercare la sua fattrice, di pregare il suo Dio che è anche il mio.
Strano, abbiamo un solo Dio ma siamo diversi, crediamo in modo diverso e siamo nemici. Il mio Dio mi ha chiamata un giorno perché salvassi la Francia e le dessi un re: perché non finisse in mano inglese. Creai un’armata per liberare il sacro suolo come mi era stato ordinato. Scelsi la purezza e la castità, ma ottenni anche la morte. La vidi altera e nera negli occhi di quest’uomo che ho sul grembo e ne fui atterrita.
Pregai quindi per lui e per me: un voto troppo alto mi fu richiesto, in fondo son solo una ragazza; un costo troppo alto la sorte ha reclamato per questo giovane soldato: lasciare il suo villaggio, la sua casa e l’adorata madre. Invoco la Madre di tutti noi che fughi le nostre paure, che allontani da me questo calice portatore di tanta sofferenza.
Il mio cuore è sconvolto dalla devastazione che mi circonda e di cui sono responsabile: perché io e perché così? Partii dalla piccola casa natia, i miei genitori inconsapevoli del mio futuro destino, una famiglia di fede, devota a Dio. Partii perché le “voci” insistevano affinché salvassi la mia patria, liberandola dagli invasori e dai traditori. Non sapevo come avrei fatto, ma loro mi rassicuravano che nei Cieli il disegno era pronto ed io ero il mezzo.
Il mio paese stava per capitolare, gli inglesi avrebbero avuto tutto: serviva un condottiero dal cuore limpido, fedele al futuro re e assolutamente devoto. Un condottiero donna! Quanta ilarità scatenai nei nobili, anche il re mi teneva in poco conto. Il popolo no: mi amò da subito per la mia bianca armatura immacolata, per il mio amore sconfinato, per il mio alto senso di giustizia. E il popolo fu il mio sostegno, divenne la mia forza, mi diede il coraggio di lanciarmi in battaglia impugnando il mio vessillo di guerra.
Il soldato inglese emise un grido mentre il sole stava declinando oltre le colline, ed il freddo si impossessò di uomini e cose, del sangue e degli scudi, degli elmi fessi e dei corpi squarciati. La pulzella fu attraversata da un brivido e smise per un momento di pregare; sentiva la morte vicina, appresso a loro, giunta a reclamare il suo tributo.
Lei poteva vederla, così come anche il soldato inglese sul suo grembo, e questo era il motivo della sua agitazione: muoveva le braccia stanche a scacciare il nero incubo, la pulzella invece non era per nulla intimorita, la sua armatura risplendeva come un sole.
“Sono venuta a reclamare quest’uomo! E tante altre vite che oggi ed in futuro mi assegnerai” disse la morte. La pulzella alzò lo sguardo lentamente, aveva due occhi di fuoco, avrebbe intimorito chiunque. Non la morte.
“Dimmi, quale tributo vuoi da me? Perché tanta sofferenza?”
“Sei tu l’eletta, tu decidesti un giorno di primavera di avviare la grande redenzione, io colgo solo i frutti…Tanto sangue ancora scorrerà per mano della tua armata, dovevi sapere che su questa terra non ci sono vittorie che non comportino drammi umani”.
Il morituro sentendo la pulzella parlare con la plumbea figura aumentò per quanto poco gli riuscisse, il suo dimenarsi, riprese a strette labbra a pregare, con occhi sbarrati.
La morte alzò la falce. La guerriera le fermò il braccio: “Lasciami ancora qualche ora ch’io possa espiare, assistendo questo povero ragazzo, una minuscola parte della mia colpa.”
Le lacrime le rigavano il volto giovane e stanco, la morte faceva ombra sulla sua figura. ”Non preoccuparti, non ho fretta, capisco quanto tutto questo ti sconvolga. Voglio farti una rivelazione, anche se comprendo come tu ormai sia pronta a quello che ti attende. Vincerai, pulzella, la tua guerra contro gli inglesi, li caccerai dal sacro suolo della Francia, ma tutto questo a costo della tua stessa vita! Subirai un processo per eresia e chi oggi ti attornia ti abbandonerà ad un tristo destino.”
La ragazza sorrise finalmente, quasi che quella rivelazione l’avesse liberata da un peso: davvero pagare per tutte le sofferenze inferte era sin poco. Uccisioni di cristiani per mano di altri cristiani! Nessuna gloria e nessuna fortuna nella notte nera che ci circonda.
In quel momento la morte le fece un cenno cui neppure un’eletta poteva opporre rifiuto: il momento per il soldato inglese era giunto, la notte quasi passata.
Giovanna, con gli occhi pieni di lacrime, si rialzò da terra recuperando le armi e, mesta, preso il cavallo per le redini, si avviò verso il suo accampamento.
Nel cuore e nel cervello una domanda la sconvolgeva: se Dio permetteva tutto questo, era perché il mondo aveva smarrito Dio?