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Le insegne
Felicior Augusto melior Traiano
Sono ormai anni che è diventato imperatore, da quando il saggio Nerva lo ha adottato, costretto dalla casta militare ormai politicamente importantissima nel governo di Roma, e lui lo ha poi sostituito alla sua morte. Da uomo di armi ha dovuto occuparsi in prima persona della sicurezza dei confini dell’impero, ottenendo peraltro importanti successi sul campo contro Decebalo, re della Dacia, e ha fatto erigere ad imperitura memoria una colonna marmorea, che ricordi l’epopea dell’impresa.
Dovrebbe essere orgoglioso, felice e grato agli dei che gli hanno fatto dono di coraggio e saggezza, fortuna ed astuzia. Ma non gli basta: è inquieto oggi, il giorno dopo il trionfo che gli è stato tributato, rinchiuso nel suo palazzo come una belva in gabbia. Qualcosa lo tormenta da anni, da ragazzo nella natia Spagna come in Germania giovane governatore, mentre si prodigava per raggiungere la soglia nella scala sociale che riteneva gli spettasse di diritto. Gli è riuscito tutto, anzi è arrivato oltre al gradino massimo, appena sotto gli dei eppure…
Uno schiavo lo avvicina, è Licinius, il vecchio servitore della sua famiglia, l’uomo fidato che lo ha accompagnato sin da ragazzo, colui che conosce l’animo del padrone con il solo sguardo.
“Cosa avete Marcus Ulpius? Vedo ombre nei vostri occhi eppure ieri Roma ed il mondo intero vi hanno reso tributo”, il vecchio conosce già il tormento e vorrebbe estirparlo dal cuore dell’amato padrone, che ha visto bimbo nella Spagna felice, ma non conosce il rimedio contro il veleno che egli chissà come e quando ha ingerito.
“Lo sai Licinius, è sempre lo stesso: anche stanotte ho sognato le insegne…”
“Sono passati 150 anni, Marcus, e le insegne sono tornate a Roma con il divino Augusto, è un fatto acclarato”
“Per nulla, Licinius, per nulla. Ne hanno restituito solo alcune: quei morti non riavranno mai pace, Roma non riavrà mai il suo onore sino a che tutte non saranno qui nella loro casa e io sento il dovere di andare a riprenderle, ogni giorno in modo più pressante.”
Il pover’uomo non sa come convincere e fermare il padrone, oggi l’uomo più potente al mondo, giudice unico di vita e morte, arbitro del fato di tutti, ma non del suo. E gli ritorna alla memoria il tempo lontano quando, accompagnando il ragazzo in una visita alla città di Cadice, questi aveva voluto conferire con una maga numida la cui fama aveva varcato i confini della stessa Spagna. L’aveva vissuta come uno scherzo, quando l’età giovane fa pensare ad un futuro senza tempo, e aveva riso alla profezia che quella, invero serissima, gli aveva svelato.
“Imperator sarà il tuo titolo, vedrai la terra fra i due fiumi sino al loro sbocco, riavrai gli agognati vessilli in cambio della tua stessa vita.”
“Della vita”, pensa lo schiavo, e sa che nulla v’è di più prezioso, sa che il suo amato padrone inseguirà quel folle destino, e non sa come proteggerlo: il giuramento fatto al padre di Marcus il giorno della nascita verrà tradito. Continua a chiedersi perché questo sogno delle insegne ossessioni Marcus sin da bambino. Lo ricorda quando adolescente la notte si rigirava nel giaciglio e pronunciava frasi sconnesse alternate al suo nome, Licinius!
Povero vecchio non sa che non era lui chiamato nel sogno, ma l’uomo che aveva, a causa della sua ingordigia, perso un intero esercito in terra partica: Marco Licinio Crasso; e che il caldo, la sete e la sabbia che tormentavano il povero ragazzo nel sonno erano quelle di Carre. In quella nefasta battaglia gli dei avevano volto le spalle ai romani, rei di aver cercato solo oro e bottino, incuranti della forza e della furbizia del nemico. Là vennero perse le insegne in una vergognosa fuga, cadendo nel tranello di vili consiglieri voltagabbana, troppo sicuri dei propri mezzi e tronfi del proprio coraggio abbandonata la giusta sapienza.
Babilonia: finalmente una notte serena, il divo Traiano gode la pace dell’anima, il re dei Parti sconfitto ha riconsegnato i vessilli che tanto lo hanno tormentato. Il buon Licinio è morto alcuni anni orsono proprio alla vigilia della campagna militare, nessuno veglia più il ragazzo.
Nel buio della notte e nel silenzio della grande sala che vide i re Babilonesi ed Assiri, una figura ieratica avanza verso il giaciglio dell’imperatore e più volte lo chiama per nome. Traiano si sveglia e rivolge lo sguardo sorpreso ma non spaventato verso la voce: “Chi sei? Come conosci il mio nome?” Ha eluso la guardia e questo basta per fargli impugnare il gladio.
“Non temere Marcus! Finalmente posso vederti. Ti ho chiamato da quando eri un bambino, sapevo che saresti venuto, che le insegne ti avrebbero mosso. So che solo tu potrai portare a termine il mio sogno, varcare i confini persiani verso il misterioso Oriente.”
Traiano comprende che la figura augusta che lo fronteggia altri non è che il grande Alessandro, l’invitto generale macedone. Un brivido gli sale dal cuore al capo: la sua grande sofferenza era dunque intrecciata al suo destino e al contempo a quello del suo unico predecessore, l’unico abile a sciogliere il nodo di Gordio, che gli aveva aperto la conquista del mondo.
“Veramente posso ambire al sogno alessandrino? Non sono forse troppo vecchio per tutto questo?” Mentre si domanda queste cose, la bionda figura si dissolve nel nulla, lasciando all’imperatore un gusto acre in bocca, mentre la sua mente inizia a pianificare la nuova missione.
“Babilonia strega chiunque!“ aveva detto Licinius in punto di morte…